Storia naturale, scienza globale

Marco Beretta

Università di Bologna

marco.beretta@unibo.it

La storia della scienza aggrega una comunità le cui dimensioni, in Italia e nel mondo, non sembrerebbero tali da giustificare l’istituzione di una nuova rivista. Si tratta di una disciplina che è insegnata da meno di un secolo e che fatica ancora a trovare una sua collocazione precisa tra le materie scientifiche e quelle umanistiche. Non è ancora chiaro se i suoi esitanti sviluppi costituiscano un difetto congenito o se, più verosimilmente, siano l’effetto della sua sterminata estensione e della sua intrinseca natura interdisciplinare. La storia della scienza, infatti, prova a unire saperi che spaziano dalla botanica alla meccanica quantistica, spesso divisi da linguaggi, categorie epistemologiche e storie diversissime, non meno di quanto possono essere diverse, per esempio, la storia dell’arte e la letteratura greca. L’idea, tutta positivistica, che queste diversità avessero un comune denominatore filosofico ha molte radici diverse e non può essere questa la sede per ripercorrerne analiticamente la genealogia. Ci basti un riferimento all’immensa fortuna goduta dalla categoria storiografica di ‘Rivoluzione scientifica’ che, dal Discours préliminaire all’Encyclopédie di Jean d’Alembert, pubblicato nel 1751, sino a The Structure of the Scientific Revolutions di Thomas Kuhn del 1962, ha tracciato sia il profilo concettuale della storia della scienza sia la gerarchia dei saperi che la sostanziavano. Secondo questo canone narrativo, la Rivoluzione scientifica abbraccia il periodo che dall’opera di Copernico (1543) trova il proprio compimento nella sintesi newtoniana (1687). L’affermarsi di una visione meccanicistica e matematizzabile dei fenomeni naturali avrebbe contribuito all’emancipazione dall’aristotelismo e dalla scolastica. Sempre secondo questa lettura, perché tale emancipazione avesse luogo era stata necessaria la riscoperta di quelle fonti greche, in particolare dell’opera di Archimede, capaci di prefigurare una nuova scienza, la fisica-meccanica, che avrebbe di lì in poi indotto tutte le altre a far proprio, fin dove possibile, questo modello. La categoria di ‘Rivoluzione scientifica’ offriva anche una visione prospettica capace di prefigurare un’evoluzione che avrebbe condotto fino ad Einstein ed alla fisica contemporanea. La ‘Rivoluzione scientifica’ è stata così considerata il punto di partenza e il motore principale di tutta la scienza moderna.

Solo di recente ci si è resi conto che questa categoria storiografica non era servita soltanto a comprendere la storia della fisica ma che aveva anche contribuito ad alterare la storia di tutte le altre discipline, lasciando sullo sfondo o addirittura nell’oblio fenomeni culturali e autori che non potevano in alcun modo rientrare nel canone meccanicistico. Ci sono voluti decenni di studio perché discipline quali l’alchimia e l’astrologia non venissero considerate solo come pseudoscienze ma come saperi stratificati da cui era del tutto anacronistico sceverare ciò che poteva avere un fondamento scientifico e sperimentale da ciò che invece discendeva da assunti che la nostra cultura contemporanea ha liquidato come frutto di credenze religiose o, peggio, di superstizioni. Per avere una percezione sensibile dell’impatto di questo pregiudizio storiografico è sufficiente ricordare che i manoscritti alchemici di Newton sono stati riscoperti nel 1936 ma sono stati studiati sistematicamente solo negli ultimi due decenni. Non sorprende che da questi approfondimenti la figura tradizionale di Newton ne sia uscita completamente rinnovata.

Questo breve accenno alle storture della storiografia della scienza vale anche, e forse ancor di più, per la storia naturale, una disciplina affatto particolare che, pur avendo accompagnato la storia della scienza dalle sue origini fino alla contemporaneità, sembra esser costantemente rimasta sullo sfondo delle grandi narrazioni storiche. Certo, i nomi di Aldrovandi, Buffon e Linneo non sono totalmente ignoti ma il ruolo che gli è stato riservato nelle storie delle scienze è del tutto marginale, sia sul piano delle teorie sia su quello dei risultati effettivamente conseguiti sul campo.

Eppure, a partire dal Rinascimento, la scoperta di migliaia di nuove specie naturali provenienti da tutti gli angoli del mondo non solo arricchiva il patrimonio delle conoscenze scientifiche ma offriva materiali che, sottoposti a manipolazioni di tutti tipi, si innestarono rapidamente nella vita quotidiana dei centri urbani di tutta Europa, entrando a far parte delle farmacopee municipali, arricchendo rapidamente la varietà delle risorse alimentari e favorendo la creazione di una fitta rete di scambi commerciali e culturali. Inoltre, lo studio dell’uomo ha reso la storia naturale per quasi due millenni l’unica chiave per delineare una prima classificazione antropologica.

Diversamente dalla meccanica, dalla fisica e dall’astronomia, la storia naturale non si è definita nel mondo greco ma è stata opera di un funzionario romano, Plinio il Vecchio, il quale ha raccolto in 37 libri una Naturalis historia con la quale aspirava a fare un bilancio delle conoscenze scientifiche della sua epoca (I sec. d.C.) (Fig. 1). Nella dedica all’imperatore Tito, Plinio presentava i libri come “opera di genere nuovo”, scritta “per gente umile, per la massa dei contadini e degli artigiani” ove veniva descritta la natura “cioè la vita, e per giunta nei suoi aspetti più umili”. Pur nella sua modestia filosofica, Plinio rivendicava con orgoglio una raccolta di 20000 “fatti degni di nota” desunti da osservazioni e “dalla lettura di circa 2000 volumi”. Un tale sforzo enciclopedico non era mai stato tentato prima. Per orientare il lettore nella selva di informazioni proposte, Plinio esordiva con un’altra novità letteraria: un indice analitico dei contenuti dei 36 libri che, dopo una breve introduzione alla cosmologia, erano tutti dedicati ai prodotti della natura, gli animali, le piante e i minerali e alla loro classificazione.

Assecondando un tipico tratto romano, l’organizzazione del mondo materiale proposta da Plinio non attingeva solo a principi di carattere teorico, desunti dai caratteri biologici o morfologici degli enti naturali, ma anche alle indicazioni offerte dalle arti e dalle tecniche che, sondando e manipolando la natura, ne scoprivano le più intime caratteristiche. Così nella classificazione degli uccelli Plinio inseriva riferimenti alla caccia e alla domesticazione, interrogandosi su chi fosse stato il primo uomo “ad uccidere il pavone per mangiarlo” o “chi per primo introdusse l’uso del fegato d’oca”. Le discrepanze tra quanto trasmesso dalle fonti letterarie e le osservazioni insinuarono in Plinio il dubbio che alcune specie si fossero potute estinguere. La descrizione unita all’organizzazione della natura e l’accumulazione di tante osservazioni e letture aveva poi indotto Plinio a tentare di spiegare le “differenze fra le membra dell’uomo e quelle degli altri animali”. Piante, animali e minerali venivano tutti considerati e definiti sia attraverso le loro caratteristiche morfologiche sia sulla base della loro funzione nelle varie attività umane. Così, la celebre digressione sulla storia dell’arte greca contenuta nei libri XXXIII-XXXVI seguiva l’accurata diagnosi scientifica sui materiali usati dagli artisti (pigmenti, bronzo, marmo, vetro ecc.), l’esame della loro composizione chimica e della origine. La storia della natura si intrecciava alla storia della cultura e si potrebbe legittimamente considerare la Naturalis historia come il primo grande studio comprensivo dei rapporti tra uomo e natura.

Fig. 1. Ritratto di Plinio desunto da una tavola vista da André Thevet e riprodotta nell’ottavo volume della sua Histoire des plus illustres et scavans hommes de leurs siècles (1671). Quella qui pubblicata è tratta da Antonio G. di Rezzonico, Disquisitiones Plinianae (Parma, 1763), vol. 1, p. 190.

L’ambizione di Plinio di coprire, attraverso la lettura, l’osservazione e la sperimentazione, tutte le nozioni conosciute si rifletteva nei numerosissimi riferimenti al collezionismo, un’altra novità che a Roma stava conoscendo una fortuna senza precedenti. Le meraviglie e le rarità della natura, le collezioni di gemme, i portentosi rimedi, le piante da frutto fino ad allora sconosciute e un’altra messe di tesori preziosi era progressivamente confluita nella capitale dell’impero, trasformandola in un enorme museo aperto all’ammirazione della cittadinanza. Se, come abbiamo visto, la Naturalis historia si apriva in una chiave dimessa, nel volgere al termine della sua opera Plinio poteva finalmente lasciar da parte tutta la sua modestia e rivendicare con orgoglio l’eccezionalità di Roma:

Questo è davvero il momento di passare alle meraviglie della nostra città, vedere la forza che ha manifestato nelle opere di pace nei suoi ottocento anni di esistenza, e mostrare che anche in questo ha trionfato sul mondo intero: apparirà chiaro che i trionfi sono quasi altrettanti quante le meraviglie di cui parleremo; se poi le raccogliessimo tutte insieme e le accumulassimo con in un solo mucchio, l’altezza di questo risulterà non meno imponente di quella che avrebbe la descrizione complessiva di un altro mondo. (NH, XXXVI, 24, 101).

La notevolissima circolazione e collezione di oggetti naturali nell’area del Mediterraneo, oggetto di analisi più approfondite da parte di Lucia Raggetti in quel che segue, avrebbe posto l’accento, in epoca moderna, su uno dei tratti più fortunati della storia naturale.

Non sorprende che l’opera di Plinio abbia goduto di un’immensa fortuna. Il gusto per la meraviglia la rese popolare per tutto il Medioevo, ma fu nel Rinascimento che la sua lettura alimentò la smisurata curiosità di viaggiatori, naturalisti e tecnici i quali ne fecero la più autorevole guida attraverso la quale esplorare la natura. Lo spirito che animava gli studiosi del Rinascimento, tutto rivolto a infrangere le barriere poste dai filosofi greci tra natura e artificio, trovò nella storia naturale pliniana un ideale di scienza che collimava perfettamente con gli obiettivi di conoscere, attraverso lo sviluppo delle arti e delle tecniche, i più intimi misteri della natura. È singolare che uno dei testi scientifici più popolari di tutte le epoche non abbia attirato l’attenzione degli storici della scienza i quali, nella stragrande maggioranza dei casi, si sono impegnati a mettere in evidenza più il dilettantismo e la credulità del suo autore che non i tratti originali del suo approccio. In effetti, Plinio proponeva una visione della natura talmente diversa da quella propugnata dai filosofi greci che solo a fatica si è accettato di avvicinarsi alla sua opera senza considerarla una bizzarra singolarità letteraria.

Ulisse Aldrovandi, del quale quest’anno celebriamo il quinto centenario della nascita, fu un lettore appassionato di Plinio ed è certamente a partire dal suo modello di scienza che volle sviluppare una nuova storia della natura, non meno ambiziosa di quella messa in scena dal naturalista latino. Al posto di Roma Aldrovandi sostituì nuovi spazi attraverso i quali dispiegare, seguendo un ragionato compendio dell’ordine della natura, le proprie collezioni naturalistiche. Museo e giardino botanico, innestati nel quadro del nuovo insegnamento, riconosciutogli dall’ateneo bolognese nel 1561, di Philosophia naturalis ordinaria de fossilibus, plantis et animalibus, diventarono i luoghi privilegiati di una ricerca il cui immenso perimetro era delimitato esclusivamente dai tre regni della natura, minerale, vegetale ed animale. Così la storia naturale a Bologna, come in tanti altri centri dell’Europa rinascimentale, diveniva una disciplina sconfinata e popolarissima, capace di addomesticare, diffondere e moltiplicare i prodotti che le invasioni sconquassanti del nuovo mondo avevano conquistato. Di questo commercio globale la storia naturale divenne strumento conoscitivo indispensabile e, di conseguenza, assunse una funzione strategica nelle principali corti e stati europei. A partire dal Cinquecento fino alla fine del Settecento è difficile trovare spedizione o esplorazione geografica che non prevedesse un lauto finanziamento a ricerche di impronta naturalistica. Di qui l’esponenziale aumento delle specie naturali conosciute e la ricerca di precisi metodi tassonomici adeguati a classificarle. Con il Systema naturae (1735) e la sua nomenclatura binomiale, Carlo Linneo, presentandosi come novello Adamo (Fig. 2), si persuase di aver trovato la chiave per dominare e classificare questa selva sempre crescente di enti naturali. Attraverso una capillare rete di discepoli, detti ‘apostoli’, il progetto linneano di classificare la natura cominciò a prendere corpo e solo sul finire del secolo ci si incominciò accorgere non solo dell’ingovernabile vastità delle specie esistenti ma anche, grazie a Buffon e Lamarck, di alcune variazioni che sembravano mettere in discussione la loro fissità, il fondamento principale della dottrina di Linneo e, più generale, della storia naturale. Dalla progressiva accumulazione di osservazioni e collezioni emersero novità ancora più traumatiche.

Fig. 2. Vignetta raffigurante Linneo/Adamo che, ispirato dalla natura, descrive i tre regni naturali. Frontespizio (dettaglio) di Carlo Linneo, Systema naturae (Halae Magdeburgica: Curt, 1760), vol. 1.

Come è noto la scoperta della chimica, alla fine del Settecento, che i minerali avevano una struttura materiale non riconducibile, come si era sempre creduto, a quella degli altri due regni sembrava condurre inevitabilmente alla fine della storia naturale. Fu a seguito di tale circostanza, infatti, che prese rinnovato vigore, grazie soprattutto all’opera di Lamarck, l’uso del termine ‘biologia’ che, accorpando zoologia e botanica, designava lo studio dei fenomeni della vita. La distinzione fondamentale tra l’inorganico e il vivente provocò una improvvisa implosione della storia naturale e, contemporaneamente, una profonda riconfigurazione di quelle che erano state le sue principali traiettorie di indagine. La separazione del regno minerale dallo studio del vivente non sancì però la morte della storia naturale. Sorprendentemente una delle prime istituzioni scientifiche inaugurate durante la Rivoluzione francese fu, nel 1793, il Muséum d’histoire naturelle, un agglomerato di spazi che andava a sostituire, con un nuovo piano, il celebre Jardin des plantes. Nei decenni successivi, grazie soprattutto alla direzione di Georges Cuvier, questa istituzione divenne una delle più celebri d’Europa contribuendo a rilanciare, almeno a livello museale, l’interesse scientifico per la storia della naturale. Si venne così creando una situazione apparentemente paradossale per cui una disciplina, in declino nelle università, trovava un’inaspettata vitalità nei musei dove, per tutto il secolo, le collezioni subirono costanti riclassificazioni e diedero luogo a nuove riflessioni, per esempio, nel caso dei reperti paleontologici, sull’evoluzione delle specie. Il successo dei musei di storia naturale è andato poi crescente per tutto il diciannovesimo secolo e i primi decenni del successivo. A conferma di questa tendenza è sufficiente menzionare l’istituzione a Stoccolma nel 1907 del monumentale Naturhistoriska Museet che, nel celebrare il secondo centenario della nascita di Linneo, aveva anche l’ambizione di diventare il più grande museo di storia naturale al mondo. Lo sforzo economico che si rese necessario per la sua realizzazione mise in seria crisi il bilancio dello Stato.

I musei di storia naturale hanno continuato ad assolvere una funzione culturale e scientifica significativa per tutto il Novecento, assumendo nuovi significati. La loro importanza nell’accompagnare e orientare la ricerca e l’opinione pubblica su temi riguardanti le specie naturali, l’ambiente, l’evoluzione e l’antropologia ha ad esempio progressivamente reso evidente, soprattutto negli ultimi tre decenni, la problematica identità storico-culturale delle collezioni provenienti dalle conquiste coloniali. I dibattiti e le accese controversie che ne sono seguite hanno messo in discussione la loro legittimità e in non pochi casi le collezioni sono state tolte dalle esposizioni, restituite ai paesi di provenienza o totalmente riorganizzate.

Questa breve esposizione di temi, argomenti e dibattiti suscitati nel corso del tempo dalla storia naturale rivela l’esigenza di individuare uno spazio culturale aperto attraverso cui coglierne, con metodi e approcci storiografici diversi, la ricchezza culturale.

© MARCO BERETTA, 2022 / Doi: 10.30682/aldro2201a
This is an open access article distributed under the terms of the CC BY 4.0 license


East or West

East or West, Aldrovandi Best

Lucia Raggetti

Università di Bologna

lucia.raggetti@unibo.it

Nel definire le linee di questa rivista, ci siamo lasciati ispirare dalle diverse sfaccettature di Ulisse Aldrovandi – collezionista, studioso e curioso della natura, autore di imponenti opere a stampa corredate di migliaia illustrazioni – per delineare un ampio perimetro che potesse includere dalle attestazioni più antiche agli sviluppi più recenti di questi temi storico-naturalistici. In questo spirito, Aldrovandiana non vuole semplicemente ‘aprire alle tradizioni antiche e orientali’: l’obiettivo di questa rivista è quello di definire un continuum della storia della scienza che si ramifichi nel tempo e nello spazio. Didone strappò il territorio di Cartagine usando intelligentemente una singola pelle, Aldrovandiana può essere così ambiziosa perché il suo ispiratore è incredibilmente generoso negli spunti di ricerca.

L’osservazione, la descrizione e il tentativo di sistematizzazione della natura sono stati interessi condivisi da moltissime culture e società, che hanno poi concettualizzato in maniere diverse il medesimo oggetto di osservazione. Uno dei compiti dello storico della scienza è quello di ricostruire questi linguaggi idiomatici per ricostruire la complessa rete di idee di cui resta traccia nelle fonti. L’elemento della meraviglia si accompagna all’osservazione della natura e alimenta sia la passione degli studiosi che dei lettori delle loro opere.

Di solito, è principalmente alla cultura greca che va il pensiero quando si discute di natura nel periodo premoderno. Il concetto di physis è di certo stato centrale al dibattito filosofico antico, alla pratica medica, allo sviluppo dell’alchimia. La natura, tuttavia, rimane centrale anche in quelle fonti che si concentrano sulle applicazioni tecniche di questa conoscenza invece che sui suoi aspetti teorici.

Tuttavia, anche se il greco è certamente stata la lingua più diffusa nel Mediterraneo e del Vicino Oriente, non ci si deve lasciar trasportare dal fascino della narrativa quasi mitologica del protos heuretes, il ‘primo scopritore’. La narrativa storica è molto più ricca e affascinante e negli ultimi decenni si è aperta ad accogliere nuove prospettive. Before Nature, ad esempio, è il titolo che Francesca Roschberg ha scelto per il suo studio sulla conoscenza naturale assiro-babilonese e il suo posto nella storia della scienza.

Dopo il fulgore dell’antichità, seguita dall’onda sincretica dell’ellenismo, nella tardo-antichità l’oriente di quello stesso impero ha visto una grande circolazione e compilazione delle idee sulla natura. La tradizione siriaca introduce parte di questo sapere in ambiente semitico e recenti studi hanno reso chiaramente l’importanza della scienza nella tradizione siriaca (solo per fare un esempio, Les sciences en syriaque, Études Syriaques 11). Il ruolo cruciale dell’arabo, sia nella trasmissione della scienza antica che nell’elaborazione originale delle idee scientifiche, è stato uno dei motori degli studi arabistici fin dai loro albori nell’età moderna. Tanti studiosi si sono dedicati a questi studi ma la tradizione araba – specie guardando alla sua tradizione manoscritta – è così imponente che a volte si ha l’impressione di aver mappato appena la punta dell’iceberg. A loro volta, la tradizione latina e quella bizantina si sono alimentate delle tradizioni precedenti per inaugurare una loro propria prospettiva sulla natura e sul suo studio. Nella ricostruzione di questo continuum non possiamo immaginare di tracciare solo linee dirette e frecce che puntino in una sola direzione. Come in un processo d’osmosi, i flussi possono cambiare direzione a seconda delle concentrazioni culturali. In età moderna, ad esempio, la iatrochimica viene introdotta con un certo successo nell’Impero Ottomano grazie alle traduzioni in arabo del medico di Murad IV.

Guardando alla storia della scienza e alla trasmissione della conoscenza in una prospettiva interculturale e interdisciplinare di lunga durata, si può osservare come alcuni di questi oggetti naturali abbiano lasciato un’impressione particolare. Se in alcuni casi non si può escludere una poligenesi, in molti altri appare evidente una linea di trasmissione.

Già nella medicina babilonese leggiamo che diverse pietre erano usate come amuleti per la gravidanza e il parto. Dalla letteratura greca, emerge un piccolo geode che contiene un’altra pietra al suo interno, scuotendo il geode si può chiaramente sentire l’inclusione che si agita al suo interno. In greco questa pietra era chiamata aetitis, la ‘pietra dell’aquila’, perché si credeva la si potesse trovare nei nidi di questi rapaci. Per analogia di forma, questa pietra diventa un rimedio per le donne incinte, per proteggere il feto o favorire il parto. Dioscoride e Plinio danno indicazioni sull’uso di questa pietra, la Ciranide greca la menziona, i lapidari medievali sia in arabo che in latino non mancano di includerla, Ficino spiega la sua efficacia in termini astrologici, i medici e gli scienziati del diciassettesimo secolo continuano a discuterne e, infine, simili pietre entrano nella collezione antropologica che il naturalista Giovanni Bellucci raccoglie in Italia nel corso dell’Ottocento. Il lungo e variegato percorso, più suggestivo che esaustivo, della pietra dell’aquila mostra come l’osservazione della natura e le tradizioni testuali possano intrecciare i loro fili attraverso i secoli, le lingue e le culture.

Il mondo animale non manca di esempi e tra questi si può menzionare l’unicorno. Un misterioso quadrupede dalle sembianze caprine è nominato varie volte nell’Antico Testamento, nel Medioevo occidentale si fissa – anche negli arazzi – l’immagine di una creatura eterea e purissima dalle proprietà portentose, i resoconti dei viaggiatori sia islamici che cristiani sono pieni di riferimenti a questo sfuggente animale (anche se Marco Polo lo descrive come una creatura rozza, pesante e tutt’altro che eterea), la zoologia araba lo assimila al rinoceronte. In età moderna la prospettiva cambia radicalmente e nella collezione di Aldrovandi si trova un lungo dente di narvalo, inviato al naturalista bolognese come argomento tangibile dell’inesistenza dell’unicorno. Allo stesso tempo, l’unicorno rimane uno degli elementi iconografici preferiti dalla letteratura degli emblemi. A pensarci bene, anche se oggi forse solo i bambini sono disposti a credere nell’esistenza degli unicorni, l’oggettistica contemporanea sembra confermare la persistenza della sua fascinazione.

La mandragora – o più comunemente mandragola – è per noi un genus di piante dalle proprietà narcotiche e allucinogene (oltre un certo dosaggio, semplicemente velenosa) che cresce comunemente nel bacino del Mediterraneo. Con questo nome la Bibbia dei Settanta presenta una delle piante misteriose menzionate nella Genesi e la Vulgata ne consacra il nome. Le peculiari biforcazioni della radice sono state interpretate in senso antropomorfo e già lo storico di primo secolo Flavio Giuseppe dà indicazioni per raccogliere la pericolosa radice usando un cane. La somiglianza con la figura umana ha attratto molte narrative diverse come, ad esempio, la nozione che la pianta crescesse sotto i patiboli germinando dal seme degli impiccati. La mandragola occupa un posto centrale nella farmacologia e nelle pratiche magiche, tanto da diventare il simbolo nella commedia di Machiavelli. Sull’altra sponda del Mediterraneo, i grandi centri urbani del mondo arabo-islamico erano popolati da imbonitori e ciarlatani che vendevano come mandragole – e a prezzi esorbitanti – le radici di ciclamino intagliate.

Insieme alle idee e ai testi viaggiano anche merci e oggetti. A volte è possibile osservare le diverse reazioni sociali e culturali al passaggio e al consumo di diversi prodotti. L’esempio forse più celebre dal mondo antico è probabilmente quello dell’incenso: la sua produzione e raccolta nella parte meridionale della Penisola Araba ha supportato le civiltà Sudarabiche, il suo trasporto verso il Mediterraneo e l’Egitto per il consumo nei templi ha alimentato il commercio lungo le carovaniere percorsi dalle tribù arabe beduine da cui emergerà l’Islam qualche secolo dopo. In età moderna e su scala globale possiamo prendere ad esempio il caffè. L’infuso energizzante ottenuto dalle bacche di una pianta tropicale comincia a diffondersi nel mondo islamico nel quindicesimo secolo, diventando particolarmente popolare nell’Impero Ottomano e aprendo il dibattito tra gli esperti di diritto islamico circa la sua liceità. Un paio di secoli più tardi, la bevanda comincia a diffondersi in Europa e ogni città ha ora il suo Caffè come luogo sociale, studiosi come Luigi Ferdinando Marsili e Antoine-Alexis Cadet-de-Vaux dedicano alla produzione e alle proprietà del caffè. La pianta viene esportata in varie colonie europee lungo la linea del Tropico, dove le piantagioni dipendevano dallo sfruttamento della manodopera schiavile. Storie simili possono essere raccontate per lo zucchero, il tabacco e il tè: il loro tema comune è il sorprendente impatto di una pianta sul gusto e sulla società.

Per concludere, questo editoriale fatto di suggestioni vuole invitare i lettori e i potenziali autori di Aldrovandiana a lasciarsi catturare e ispirare dalla fascinazione della storia naturale nella sua accezione più ampia e variegata.

© LUCIA RAGGETTI, 2022 / Doi: 10.30682/aldro2201a
This is an open access article distributed under the terms of the CC BY 4.0 license