Pietro Li Causi
Sapienza Università di Roma
Come avviene per la chimica contemporanea, anche gli ultimi cinque libri della Naturalis historia di Plinio il Vecchio illustrano le proprietà e il comportamento della materia, i cui elementi costitutivi non sono però atomi, molecole e ioni, bensì – secondo una vulgata ormai divenuta egemone nel mondo antico – acqua, aria, fuoco, terra. La ‘chimica’, in particolare, è, nella Naturalis historia, una ‘scienza della Terra’, dei suoi frutti e – fuor di metafora – dei suoi stessi ‘visceri’, in un modello organicistico che vede nella Natura una divinità immanente e provvidenziale, che ora si concede spontaneamente alle applicazioni e agli usi degli umani, ora invece viene da essi violata. In quest’ottica, secondo la quale la Natura è concepita come una sorta di ‘madre-materia cosmica’, ogni pratica umana deve tenere conto della limitatezza delle risorse e delle conseguenze ‘morali’ dello sfruttamento delle stesse.
As with contemporary chemistry, even the last five books of Pliny the Elder’s Naturalis historia illustrate the properties and behaviour of matter. However, in Pliny’s perspective, the constituent elements of matter are not atoms, molecules and ions but water, air, fire, and earth. In other respects, Pliny’s ‘chemistry’ is also a ‘science of the Earth’, of its fruits and – out of metaphor – its own ‘entrails’, in an organicistic model that sees Nature as an immanent and providential deity, who grants herself spontaneously to the applications and uses of humans but can also be violated by them. In this connection, Nature is conceived as a sort of ‘cosmic mother’, and every human practice must take into account the limited resources and the ‘moral’ consequences of any exploitation of her fruits.
Pliny the Elder; Matter; Arts; Chemistry; Nature.
I libri XXXIII–XXXVII della Naturalis historia sono generalmente considerati i libri della ‘storia dell’arte’ pliniana.1 Si tende però a dimenticare che, per quanto lo spazio assegnato alle opere e agli artisti memorabili del passato sia grande, il tema centrale di questa sezione conclusiva della monumentale opera dell’enciclopedista romano rimane pur sempre la Natura – che è il centro nevralgico che opera al contempo come oggetto e come criterio di strutturazione dell’intera opera – e la materia in sé, e che dell’arte – così come, ad esempio, della medicina – si parla piuttosto come di uno dei tanti modi di manipolarla da parte dell’uomo. Oltre che di una storia dell’arte si può dunque parlare anche, per alcuni versi, di una ‘chimica dell’arte’, che va ad affiancarsi di tanto in tanto – quando si parla degli impieghi medicinali dei metalli e delle terre – a lampi di una ‘chimica farmaceutica’ ante litteram, o addirittura – viste le continue stilettate indirizzate alla logica del consumo e dell’eccesso – di una ‘chimica del lusso’.2
Certo, diversamente rispetto a quanto avviene per la chimica contemporanea, studiare la materia, per Plinio, non significa studiarne la struttura e la composizione a livello sub-microscopico, né significa trovare le cause dell’arrugginirsi di un chiodo e della combustione di una stella, né tanto meno implica la classificazione degli elementi su una tavola periodica. Significa, però, contemplare l’ordito della natura e illustrarne le pieghe. Cosa, questa, che comporta anche il classificare terre, pietre e gemme, elencarne i miscugli e le leghe, raccontarne le ‘reazioni’; ma soprattutto significa studiarne le applicazioni in quella che spesso si presenta come una ‘teoria narrativa’ o forse, in senso più proprio, uno ‘sguardo storico’ sulle sostanze e dei composti.3
È in fondo in questo interesse, teorico e pratico allo stesso tempo, per tutto ciò che esiste e che può essere usato, manipolato e trasformato dalle pratiche umane – arte compresa – che si può trovare uno spazio interstiziale che renda possibile una comparazione fra il discorso pliniano e la scienza odierna. Più nello specifico, l’intento di questo contributo non è tanto quello di tracciare un percorso evoluzionistico che parta dal mondo ‘prescientifico’ di Plinio e che arrivi alla chimica contemporanea, quanto piuttosto quello di far venire alla luce – in un’ottica di antropologia del sapere – un modo diverso di segmentare i fatti della materia e dare loro senso.
Si tenterà anche di mostrare, infine, come tale diverso modo di segmentare i fatti della materia possa essere pensato, lato sensu, come una prospettiva ‘proto-ecologica’ sul mondo e sulle relazioni fra uomo e natura.
Come avviene per la chimica contemporanea, fra gli scopi che Plinio si prefigge nei libri XXXIII–XXXVII della Naturalis historia c’è quello di illustrare le proprietà e il comportamento della materia, i cui elementi costitutivi, però, non sono atomi, molecole e ioni, bensì acqua, aria, fuoco, terra.4
La teoria dei quattro elementi – che sta alla base della cosmologia pliniana, e che fa da sfondo alla ‘chimica’ dei materiali – viene illustrata nella sezione iniziale del libro II:
Nec de elementis video dubitari quattuor esse ea: ignium summum, inde tot stellarum illos conlucentium oculos; proximum spiritus, quem Graeci nostrique eodem vocabulo aëra appellant, vitalem hunc et per cuncta rerum meabilem totoque consertum; huius vi suspensam cum quarto aquarum elemento librari medio spatii tellurem. ita mutuo conplexu diversitatis effici nexum et levia ponderibus inhiberi quo minus evolent, contraque gravia ne ruant suspendi, levibus in sublime tendentibus. Sic pari in diversa nisu in suo quaeque consistere, inrequieto mundi ipsius constricta circuitu, quo semper in se <re>currente imam atque mediam in toto esse terram, eandemque universo cardine stare pendentem, librantem per quae pendeat, ita solam inmobilem circa eam volubili universitate; eandem ex omnibus necti eidemque omnia inniti (nat. 2.10–11).
Anche riguardo agli elementi, non vedo incertezze sul fatto che siano quattro: nello spazio più alto, i fuochi, e per questo tutti quegli occhi di stelle che brillano di lassù; subito dopo, il soffio, che i Greci e noi chiamiamo con la stessa parola, ‘aria’: elemento di vita, che si insinua per la totalità delle cose ed è intrecciato al tutto universale; per sua forza si sostiene in equilibrio nel centro dello spazio la terra, e con lei il quarto elemento, le acque. Così, in un abbraccio reciproco di differenze si produce una coesione: le sostanze leggere non possono volare via, perché quelle pesanti le trattengono, e all’inverso i corpi pesanti non sprofondano grazie ai corpi leggeri che li tengono in equilibrio, spingendo verso l’alto. In tal modo, per uno sforzo bilanciato e contrapposto, ogni elemento resta in posizione, bloccato proprio dall’inquieta rotazione del mondo: in questa perpetua rivoluzione, la terra è al fondo e al centro del tutto; resta sospesa come a far da pernio per l’universo, equilibrando i corpi a cui è sospesa, e così lei sola sta immobile nel mezzo della totalità rotante; la terra è collegata a tutte le cose, e tutte le cose poggiano su di essa.5
Dopo aver illustrato gli aspetti generali della teoria, Plinio suddivide il secondo libro, che è dedicato alla cosmologia, incentrando la prima sezione sul fuoco (1–101), la seconda sull’aria (102–153), la terza sulla terra (154–211) e la quarta sull’acqua (212–234, con le successive sezioni, 235–241 e 242–248, incentrate rispettivamente sui prodigi del fuoco terrestre e sulla misurazione della terra abitata).
Quello che viene descritto in nat. 2.10–11, in particolare, è una sorta di equilibrio dinamico, una tensione di bilanciamenti e contro-bilanciamenti dei quattro elementi, il cui esito è una mescolanza paradossale e ossimorica di stasi e movimento. Questa stasi dinamica è effetto dell’incontro di forze come l’aria e il fuoco da un lato e l’acqua e la terra dall’altro. La terra, in particolare, è descritta come un elemento immobile e passivo che opera come base su cui ogni altro ente poggia.
La meccanica pliniana dei principi primi del cosmo, tuttavia, non sembra il frutto di un mero esercizio retorico volto a inanellare immagini poetiche. È emblematica, in tal senso, la scelta di utilizzare il termine spiritus – traducente latino del greco pneuma – per indicare quello che nel lessico standard cui Plinio stesso fa riferimento era solitamente chiamato, sia in greco che in latino, aër.
All’aria come elemento Plinio sovrappone l’idea – di marca stoica – di un soffio vitale che opera come principio generatore che pervade tutti i corpi e ne determina l’esistenza stessa (SVF 2.442; 443.1). Sarebbe errato, tuttavia, ipotizzare un’adesione tout court allo stoicismo. È invece più verisimile che Plinio non faccia altro che riprodurre una visione del mondo che, nell’epoca in cui scrive, è diventata ormai senso comune. Nei confronti della cosmologia stoica, peraltro, si riscontrano sia punti di contatto che di divergenza.6
Laddove, ad esempio, Plinio sembra identificare lo pneuma con l’aria, gli Stoici invece lo pensavano ora come un’entità generata da quest’ultima e dal fuoco (SVF 2.442 e 443.1), ora, in alcune varianti interne alla scuola, come un vero e proprio quinto elemento (SVF 2.310).
Al di là delle divergenze, per il resto, può essere ricondotta allo stoicismo l’idea che gli astri siano fatti di fuoco (in particolare, secondo gli Stoici, del fuoco artefice SVF 1.120.1 e 2), che l’aria, così come il fuoco (SVF 2.434 e 1.99), tenda verso l’alto (SVF 2.434), che si estenda tutto intorno alla terra fino al sole (SVF 2.564), che dia coesione alle cose (SVF 2.449.1), che funzioni da causa coibente della terra e dell’acqua, che altrimenti non si terrebbero insieme da sé (SVF 2.440 e 444). Stoica sembra, inoltre, l’idea che la terra sia fissa al centro del cosmo, di cui è base è fondamento (SVF 2.527; 582; 594), che sia stabile e che, al contempo, dia stabilità (SVF 2.1144); e sembra stoica l’idea che la posizione centrale della terra sia fonte di equilibrio rispetto a tutti gli altri componenti del cosmo (1.99; 2.580; 582; 594 – anche se in altri contesti, la centralità è assegnata al fuoco e non alla terra: cfr. Archedemo di Tarso in SVF 3 p. 264 fr. 16 = Simplicio in Arist. De coelo p. 512.28 Heibg).
Decisamente debitore dello stoicismo, infine, appare Plinio quando fa riferimento alla teoria del tonos tou pneumatos, la ‘tensione dello pneuma’ per effetto della quale tutte le cose sono tenute insieme in un equilibrio dinamico e hanno continuità con le altre cose (SVF 2.441; 447; 448).
Tutto questo non significa, naturalmente, che la monumentale opera pliniana debba essere letta come un trattato di filosofia naturale nel senso tradizionale del termine, o che abbia come scopo quello di marcare l’appartenenza ad una scuola filosofica piuttosto che ad un’altra. È Plinio stesso, del resto, a segnalare che il suo fine è piuttosto quello di descrivere la natura perfino nei suoi aspetti più umili, lasciando da parte le questioni immensae subtilitatis (cfr. praef. 12–14). Non si deve però neanche sottovalutare questo dato: la historia di Plinio, pur animata da quell’impulso inclusivo e a tratti maniacale che lo spinge ad accumulare dati e informazioni, sembra fissare, sin dal suo incipit, alcuni punti fermi teorici che la critica, almeno fino agli anni Ottanta dello scorso secolo, o non aveva visto o aveva sottostimato.7
La tavola periodica oggi in uso comprende, come ben sappiamo, centodiciotto elementi, definiti dallo IUPAC come sostanze che contengono solo atomi con lo stesso numero di protoni nel nucleo, o, nell’accezione di sostanze elementari, come sostanze le cui molecole sono costituite da un solo tipo di atomi.8
Nella vulgata cui aderisce Plinio molti di quelli che nella nostra tavola periodica sono classificati come elementi – l’oro, l’argento, il rame – sono pensati in realtà come sostanze la cui natura, in una prospettiva lontana dalla nostra esperienza, è determinata da diversi modi di fondersi di aria, acqua, terra e fuoco e dalla diversa ‘tensione’ esercitata su di essi dallo pneuma, e, verosimilmente, – anche se nel corso della Naturalis historia non si fa mai riferimento esplicito alla teoria delle qualità primarie – dalla diversa interazione di caldo, freddo, secco, umido.9
Il fatto di segmentare e classificare gli oggetti del mondo in maniera diversa rispetto a come fanno le scienze contemporanee non significa però che il mondo in cui vive Plinio sia diverso da quello in cui viviamo noi, e che le teorie e i postulati su cui si basa il suo sapere siano necessariamente ‘incommensurabili’ rispetto alle nostre teorie, ai nostri postulati, alle nostre ‘leggi della natura’.10
Facts make sense, per così dire. E i fatti che Plinio osserva a proposito dei metalli, delle pietre e dei minerali sono spesso gli stessi che osservano i chimici contemporanei,11 anche se è il senso che ne trae che cambia, così come a cambiare è l’apparato esperienziale e cognitivo che permette a Plinio di approcciarsi ai fatti e alle notizie e di organizzarle all’interno di un sapere costituito.
È questo dato che – a mio avviso – ci autorizza a comparare il nostro modo di vedere e inquadrare la realtà e quello degli antichi, a patto naturalmente che si accetti che anche per il nostro modo di vedere e inquadrare la realtà abbiamo a che fare con saperi ‘situati’, imbricati, cioè, all’interno dei quadri culturali, epistemologici, economici e sociali in cui viviamo.
Come si può vedere nella scheda di seguito riportata (Fig. 1), le proprietà periodiche di ciascun elemento – il rame, in questo caso – sono attributi di natura quantitativa (massa atomica, numero di ossidazione, raggio atomico, ecc.).
29 Cu Rame |
Fig. 1. Scheda del rame (adattamento da https://tavolaperiodica.zanichelli.it/it/). |
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I cavi elettrici sono costituiti da fili di rame, ottimi conduttori di elettroni, rivestiti di plastica |
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Classe: Metalli del blocco d |
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Massa atomica: 63.55 u |
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Numeri di ossidazione: +1 +2 |
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Configurazione elettronica: [Ar]3d104s1 |
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Temperatura di fusione: 1357 K |
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Temperatura di ebollizione: 2840 K |
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Raggio atomico: 128 pm |
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Energia di prima ionizzazione: 745 kJ/mol |
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Elettronegatività: 1.9 secondo Pauling |
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Affinità elettronica: 118.4 kJ/mol |
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Densità: 8960 g/L |
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Anno della scoperta: Noto fin dall’antichità |
Un dettaglio apparentemente insignificante: nella presente tabella le proprietà periodiche propriamente dette sono precedute, per scelta dell’editore, da una breve introduzione che ci informa sui principali impieghi del rame. Dopo la voce ‘densità’, inoltre, si indica anche l’anno della scoperta del rame: sono, questi, dei veri e propri spunti ‘storici’ ed ‘enciclopedici’, che tanto avrebbero interessato Plinio.
Naturalmente, se confrontiamo questa scheda con la sezione che nel libro XXXIV si dedica al rame (aes) e alle sue leghe (metalla ramis) ci accorgiamo subito di un dislivello nettissimo proprio a favore dei dati enciclopedici e storici. Lo aveva già osservato, nel 1929, Bailey, che aveva curato un commento dei ‘capitoli chimici’ della Naturalis historia: “A student used to modern chemical literature, will, in the pages of Pliny, find himself far from the rather arid atmosphere in which digressions are forbidden, and pleasant but useless information is omitted”.12
Quello che la scheda della Zanichelli lascia intravedere in appena due righi, in Plinio corrisponderebbe invece ad un universo narrativo in espansione. Per ogni materiale l’enciclopedista romano si perita – ogni volta che può – di raccontare come è stato scoperto, quando e in che anno è stato impiegato per la prima volta a Roma e da chi, e quali sono, infine, le sue qualità e i suoi usi. Nel caso del rame, ad esempio, si ricorda che già Numa Pompilio aveva istituito un collegio di suoi fonditori (34.1).
Per il resto, dopo avere sottolineato il valore vitale di questo metallo nella società romana, dopo aver parlato cioè del suo impiego per la fabbricazione delle monete (34.1), dopo aver spiegato come e in quali regioni del mondo si estragga (34.2), dopo aver illustrato le differenze fra i vari tipi di bronzo – realizzato, appunto, da una lega di rame e stagno – e i loro usi (34.3 ss.), Plinio si lancia in un lunghissimo excursus sugli artisti che hanno impiegato questo materiale per le loro opere (34.15–93).13
Sbaglieremmo però nel considerare questo excursus sull’arte una mera divagazione caotica o – in una prospettiva positivistica (e anacronistica) – un tradimento dei principi della scienza (ça va sans dire, della ‘nostra’ scienza). È un dato ormai acquisito quello secondo cui la concezione pliniana dell’arte è strettamente intrecciata a quella della natura: “Plinio dimostra, fin dalla suddivisione della materia, di ritenere che il punto di partenza dell’attività artistica non sia la creatività dell’artifex, ma la natura stessa, che offre beni più o meno appropriati a determinate valorizzazioni”.14 In questa logica, le creazioni umane sono considerate di pregio quando imitano il lavoro della Natura, che plasma provvidenzialmente gli stessi materiali che genera; e l’uomo che si fa demiurgo non fa altro che replicare, imitandolo, un atto che compete prima di tutto alla Natura stessa, di cui l’uomo stesso è una parte significativa e, quasi, un’estensione; tanto più che molte sono, in Plinio, le testimonianze di opere d’arte che non sono tanto ‘create’ dagli artisti, ma plasmate o anche semplicemente ‘scoperte’. Nel caso delle opere in marmo, ad esempio, Plinio suggerisce che le forme di alcune statue non sono davvero il frutto del lavoro degli artisti, proprio perché sono già state incapsulate all’interno dei blocchi di marmo dalla Natura stessa.15 Gli artisti, semplicemente, si sono limitati a trovare forme che pre-esistevano e a portarle alla luce.16
Ma se la Natura è capace di generare i suoi materiali (e, come gli uomini che la imitano, le sue opere d’arte!), questo vuol dire che siamo davanti non ad un oggetto inerte da misurare, quanto piuttosto ad un soggetto dotato di una sua personalità e di una sua intenzionalità. In altri termini, la Natura di Plinio – in linea con una concezione stoica largamente diffusa (cfr. ad es. SVF 2.310) – è concepita come un macro-organismo vivente, ovvero come una divinità panteistica e immanente che si identifica con il cosmo stesso e che opera in maniera demiurgica garantendo il proprio stesso equilibrio.17 Ciò significa che ogni cosa che essa produce è da intendersi ora come una sorta di ‘frutto’ che cresce dal e sul suo corpo – le pietre stesse sono qua e là presentate come oggetti che ‘ricrescono’ e che addirittura, in alcuni casi, si riproducono –, ora come un suo organo vitale, ora come un suo manufatto organico:18 nel caso dei metalli, ad esempio, si dice che sono le viscere della Terra, mentre delle pietre e delle montagne si lascia intuire che ne sono lo scheletro (cfr. rispettivamente 33.1 e 36.1 ss.).
Dire che la Natura sia un soggetto vivo, tuttavia, non esclude che le sue componenti possano essere misurate. Anche in Plinio, cioè, come nella chimica contemporanea, sia pur sulla base di presupposti del tutto diversi, troviamo un certo interesse per i dati quantitativi: si registrano, fra le altre cose, le proporzioni da impiegare nell’uso delle leghe o dei miscugli in quelle che oggi chiameremmo ‘ricette’ o anche ‘reazioni chimiche’.19
Del rame, ad esempio, si dice che purgaturque roboreo cribro profusum in aquam frigidam ac saepius simili modo coquitur, novissime additis plumbi argentarii Hispaniensis denis libris in centenas aeris (34.95: “si purifica con un setaccio di quercia, dopo averlo immesso in acqua fredda; quindi lo si fa fondere più volte nello stesso modo e si aggiungono alla fine dieci libbre di piombo argentario di Spagna per cento di rame”).20 Una notazione simile la troviamo per il rame di Cipro (dal cui nome, Cupris, deriva la sigla del rame, Cu, nella tavola periodica):
uritur autem Cyprium in fictilibus crudis cum sulpuris pari pondere, vaso<rum> circumlito spiramento, in caminis, donec vasa ipsa percoquantur. quidam et salem addunt, aliqui alumen pro sulpure, alii nihil, sed aceto tantum aspergunt. ustum teritur <in> mortario Thebaico, aqua pluvia lavatur iterumque adiecta largiore teritur et, dum considat, relinquitur, hoc saepius, donec ad speciem minii redeat. Tunc siccatum in sole in aerea pyxide servatur (nat. 34.106).
Il rame di Cipro si brucia poi in recipienti di terra cruda con una quantità uguale di zolfo, dopo avere unto l’apertura dei vasi e averli lasciati nei forni fino a quando i vasi siano ben cotti. Alcuni aggiungono anche del sale, altri mettono l’allume invece dello zolfo, altri niente, ma si limitano a bagnarlo di aceto. Una volta bruciato lo si pesta in un mortaio di Tebe, lo si lava nell’acqua piovana e quindi lo si pesta aggiungendo nuova acqua piovana in maggiore quantità e gli si lascia fare il deposito; si ripete più volte l’operazione fino a fargli assumere l’aspetto del cinabro. Allora lo si fa seccare al sole e lo si conserva in una scatoletta di bronzo.21
In genere, le ricette che Plinio riporta – ad esempio delle diverse leghe del bronzo (34.5–12) – non sono esatte. Sono le versioni semplificate ad uso non tanto dei technites (i bronzisti, ad esempio, non avrebbero mai consultato i ricettari pliniani per mettere in atto le loro pratiche di bottega), quanto piuttosto di un pubblico erudito e colto che, attingendo alla Naturalis historia, deve ora sfoggiare le proprie competenze, ora sapere tanto quanto basta di leghe e miscugli per orientarsi nell’acquisto di statue e opere d’arte (e probabilmente anche di medicinali).22
L’idea che viene comunque veicolata è quella secondo cui la Natura offre i suoi frutti, ma può anche essere manipolata e trasformata legandola ad altre sostanze e facendola ‘reagire’. A tale proposito, Ernesto Paparazzo ha inteso mostrare il debito di Plinio con la ‘chimica’ posidoniana, che riscrive in maniera originale la teoria stoica della krasis, che prevede, appunto, che, dati due o più materiali, i tipi di unione che si possono realizzare tra essi sono ora la semplice ‘giustapposizione’, ora la mixis (ovvero la completa dissoluzione di un materiale nell’altro di due o più corpi, nella quale ogni materiale mantiene la sua qualità e sostanza), ora la synchysis (nella quale i corpi che interagiscono si trasformano in un nuovo corpo e perdono le loro qualità e sostanze).23
Questa e analoghe teorie rimangono sullo sfondo ogni volta che si enumerano le peculiarità e le leghe possibili di diversi generi di metallo. In Plinio, i metalli e i minerali cambiano nome ogni volta che vengono mescolati o fusi con altri metalli, con altri minerali o con liquidi, e cambiano la loro forma e natura se sottoposti all’azione di elementi come fuoco e aria.
Ad esempio, della cadmia (ossido di zinco o carbonato di zinco), Plinio osserva che si forma nelle miniere di rame “dopoché la parte più sottile della materia, portata fuori per azione delle fiamme e della corrente d’aria, si attacca, secondo la sua maggiore o minor leggerezza, alle volte o alle pareti delle fornaci” (34.101: fit autem egesta flammis atque flatu tenuissima parte materiae et camaris lateribusque fornacium pro quantitate levitatis adplicata), ovvero per effetto di quella che noi forse chiameremmo la ‘ossidazione’ che intacca la patina esterna del materiale; patina che per Plinio – secondo quanto dimostra Paparazzo – sembra avere, sulla scia di Posidonio, una sua concretezza materiale, e che non è invece spiegabile nei termini aristotelici del mero concetto di ‘limite geometrico’.24
La misurazione pliniana, tuttavia, non è finalizzata a ribadire la correttezza delle teorie della materia cui ci si appoggia più di quanto non sia destinata ad usi utilitaristici (volti, principalmente, al consumo più che alla produzione).25 Plinio raccoglie, in questi casi, istruzioni per realizzare alcuni preparati, senza chiedersi il perché delle quantità specifiche che riporta, senza indagare, cioè, sulle cause e sulle leggi che governano determinate regolarità o – ad esempio – sui motivi per cui con proporzioni diverse si possono ottenere preparati e materiali diversi.26
Riportare le misure delle proporzioni è utile non tanto per individuare le regolarità della natura – regolarità che Plinio, senza troppo approfondire, riconosce –,27 quanto piuttosto per riconoscere materiali di qualità per l’utilizzo artistico o, forse, per non sbagliare le dosi dei preparati medici. Ciò che del resto si lascia qua e là intendere è che la medicina e l’arte sono fra gli impieghi più nobili – o comunque accettabili – che gli esseri umani possano fare dei metalli, delle pietre e delle terre, e in parte ne giustificano lo sfruttamento.28
Emblematico, di contro, è il rifiuto di Plinio – un paradosso in un’opera inclusiva come la Naturalis historia! – di parlare esaustivamente degli impieghi militari del ferro, appena accennati in 33.1 e 34.138 e implicitamente presentati come una perversione della natura stessa.29
Dire però che le ricette pliniane prevedano soltanto un uso utilitaristico non sarebbe corretto. È vero che le cause vengono tenute sullo sfondo, ma è anche vero che tali ricette hanno anche il fine di illustrare in maniera completa le specificità e i comportamenti delle sostanze o, in altre parole, le loro nature. L’insieme delle conoscenze utilitaristiche, nella loro sommatoria, fornisce cioè un sapere integrato e universale che mira, a suo modo, alla completezza enciclopedica e che sviscera le qualità profonde di ogni componente della Natura. Ciò significa, di fatto, che ciò che è ‘utile’, nella Naturalis historia, non viene mai sganciato del tutto da finalità squisitamente conoscitive.
L’idea della Natura che opera come un macro-organismo vivente presenta implicazioni importanti sul versante della struttura stessa dell’opera. Non mi dilungo sul dibattito su questo tema; mi limito solo ad osservare che, se la Natura e il cosmo sono, per Plinio, un unico macro-organismo, la Naturalis historia, nel suo costituirsi come un ‘cosmogramma’, ne è anche, per scelta deliberata, una sorta di illustrazione anatomica.30
Questo spiegherebbe l’apparente natura caotica della trattazione, che è tipica della logica stessa delle ‘partonomie’, il cui statuto si colloca a metà strada fra quello del semplice catalogo – uno dei cui tratti principali è, in genere, quello di procedere alla rinfusa – e quello della tassonomia – che segue invece rigidi criteri gerarchici. Mi spiego meglio citando una pagina di Giorgio Raimondo Cardona tratta da La foresta di piume, del 1985, e riportandone una tavola (qui adattata in Fig. 2):
Fig. 2. Schema di partonomia standard (adattato da Cardona, La foresta di piume, 79).
Le parti del corpo formano una classificazione, una tassonomia o sono soltanto un catalogo? Questa seconda risposta potrebbe sembrare la più ovvia […] In realtà è facile verificare che per le parti del corpo non si può parlare di tassonomia in senso stretto ma di un altro tipo di relazione, che potremmo chiamare partonomia e che si basa sulla relazione logica “x è parte di y,” e non “x è un tipo di y” […]. Stabilita questa relazione, si può osservare però che in tutti i sistemi partonomici rimane valido il principio dell’ordinamento gerarchico dei vari ranghi.31
La gerarchia pliniana parte dunque, come avviene universalmente nelle partonomie di molte altre culture umane, dal confine superiore costituito dal perimetro del corpo – il mundus, il cielo e la terra (che sono argomento del libro II) –, per poi passare ai livelli successivi delle articolazioni – interne ed esterne – e dei suoi componenti, dal superiore all’inferiore, dal più grande al più piccolo, dalle regioni dell’orbis terrarum (libri III–VI) fino ai viventi che le abitano (gli uomini, gli animali, le piante, trattati rispettivamente nei libri VII, VIII–XI e XII–XXIII, e i loro usi medicinali, di cui si parla nei libri XXIV–XXXII), per poi finire con i terra eruta privi di anima, ovvero i minerali: i metalli, le terre, le pietre (libri XXXIII–XXXVII).32
Ogni singola parte del cosmo, poi, segue a propria volta le sue articolazioni secondo criteri simili a quelli delle tassonomie popolari, i cui meccanismi sono stati studiati, dalla seconda metà dello scorso secolo, dai linguisti e dagli antropologi cognitivi.
In particolare con i lavori di Brent Berlin e Paul Kay, ripresi e sviluppati negli anni Novanta da Scott Atran e da altri, si è dimostrato come campioni significativi appartenenti a diverse società e a diverse fasce di età, a partire dall’individuazione di rapporti mutualmente esclusivi ed inclusivi, fossero capaci di elaborare classificazioni di organismi viventi e oggetti inanimati su un massimo di cinque o sei livelli gerarchici (cfr. Fig. 3 e 4).33
Fig. 3. Albero di Atran-Guasparri, dove RV sta per ‘regno vernacolare’ (es. ‘animale’), FV per ‘forma di vita’ (es. ‘quadrupede’), SG per ‘specie generica’ (es. ‘gatto’), ES per ‘etno-specie’ (es. ‘gatto siamese’), EV per ‘etno-varietà’ (es. ‘gatto siamese a pelo lungo’).
Fig. 4. Esempio di classificazione popolare degli alimenti (adattamento da Cardona, La foresta di piume).
Se tale capacità è stata riscontrata in molte culture umane, diverso è il discorso per le marche linguistiche utilizzate per identificare i diversi ranghi tassonomici di primo e di secondo livello, che sarebbero invece specifici di ogni singola cultura (esemplari, ad esempio, sono in tal senso alcuni studi sugli zoonimi e sui classemi della Naturalis historia condotti negli anni 2000–2010) e che possono venire applicate sia agli organismi viventi che – come nel caso di metalli, terre, pietre e gemme – agli oggetti inanimati.34
Il dato interessante, però, è che nel suo inventario del mondo, Plinio non si attiene ad una singola classificazione locale, ma si appoggia – per così dire – a criteri multi-dimensionali e a una logica che, per forza di cose, non è unilineare.35 Un esempio emblematico, in questo senso, è rappresentato dalla sezione sulle gemme e le pietre preziose, cui è dedicato il libro XXXVII.
La trattazione inizia con un catalogo basato sul valore sociale ed economico attribuito ad ogni singolo materiale. Siamo cioè davanti ad una classificazione – o, per meglio dire, ad una ‘classifica’ – di stampo utilitaristico, il cui criterio di raggruppamento è il giudizio di valore dato dalle donne, che sono le principali utilizzatrici di quei prodotti che incarnano l’essenza stessa del lusso più sfrenato.36
Il criterio – che Plinio stesso indica come aleatorio perché soggetto ai cambiamenti del gusto – cambia immediatamente a partire da 37.92, quando si abbandona la dimensione utilitaristica e si fa seguire una classificazione delle gemme basata su aspetti più squisitamente morfologici. Le basi per la costruzione dei raggruppamenti diventano il colore e l’aspetto: prima ci sono, nell’ordine, le gemme color fuoco (37.92 ss.), poi quelle di colore ceruleo (119 s.), poi quelle di color porpora (121 ss.), poi quelle di colore dorato (126 ss.), infine quelle bianche (129 ss.).
L’elenco successivo procede quindi per ordine alfabetico: si parte con l’agata (37.139) e si finisce con la zorianiscea (185), dopo la quale il criterio classificatorio cambia ancora una volta: si passa rispettivamente all’elenco delle gemme che “prendono il nome da parti del corpo” (37.186: a membris corporis habent nomina), all’elenco delle gemme che prendono il nome dagli animali (37.187) per poi finire con l’elenco delle gemme che somigliano a res, ovvero a ‘oggetti’ (37.188). Infine, si passa all’elenco delle “gemme che vengono alla luce all’improvviso, nuove e senza nome” (37.193: gemmae nascuntur et repente novae ac sine nominibus).37
In passato, c’è stato chi ha visto, nella necessità di ricorrere a diversi criteri classificatori “la spia più evidente dell’oggettiva difficoltà di inquadrare in un sistema di categorie esaustive la sfuggente moltitudine degli oggetti e dei nomi, specie in un campo soggetto più di altri alla mutevolezza delle mode, alle infatuazioni collettive, al gusto degli esotismi”.38
Quando parliamo delle classificazioni in auge nel mondo antico bisogna, però, ricordare che le pratiche della storia naturale non sono sensibili al problema – tutto moderno – di individuare categorie esaustive e regolari, e che i meccanismi di classificazione e i raggruppamenti, in genere, hanno finalità ben diverse da quelle della scienza contemporanea.
Cerco di spiegarmi meglio usando un termine di paragone lontanissimo dall’esperienza degli antichi romani: la tavola periodica formulata da Mendéleev era stata concepita, all’origine, come “una maniera di arrangiare gli elementi in un formato compatto”, e dunque per fornirne una classificazione ‘razionale’ ad uso degli studenti di chimica. Aveva però anche finito per rivelarsi anche un “codice che identificava gli elementi, le loro proprietà, il loro comportamento” e uno “strumento per dedurre le proprietà degli elementi sconosciuti, da quelle degli elementi noti che li circondavano”.39 Nel fare questo, non si limitava a descrivere le qualità dei singoli oggetti della classificazione, ma cercava soprattutto di analizzarne i rapporti in una logica sistemica, che era – appunto – la logica della dipendenza periodica, esplorata sulla base di dati e misurazioni quantitativi (i pesi atomici, la massa atomica, la temperatura di fusione, ecc.).
Distinguere generi e sottogeneri, invece, per Plinio serve sì a individuare famiglie di elementi che hanno caratteristiche simili e distinguerli da altri elementi che si differenziano da loro per altri tratti peculiari secondo rapporti mutualmente esclusivi e inclusivi; tuttavia, la classificazione, se da un lato risulta pur sempre finalizzata – in linea con una tendenza comune a tutte le storie naturali degli antichi – a costruire percorsi di specificazione crescente, dall’altro lato serve a Plinio anche come meccanismo di ‘accumulo’ delle informazioni.40
In questo senso, la scelta di affiancare diversi criteri di classificazione e diverse distinctiones risponde a un bisogno, a suo modo ‘scientifico’, di esaustività; è cioè un modo di allargare lo sguardo sulla Natura affiancando paratatticamente prospettive parziali diverse fra loro.
In quest’ottica, è solo mettendo insieme fasci di classificazioni settoriali differenti che si può analizzare un oggetto ampliando lo sguardo e, grazie alla tecnica dell’addizione, rendendolo plurale e universale. Detto in altri termini, se è vero che la maniera pliniana di ordinare il mondo dipende dalle tassonomie di senso comune, è proprio l’idea di mettere insieme tipologie diverse di tassonomie di senso comune che permette di realizzare una sintesi che operi come un dispositivo panottico integrato sulla realtà.
Questo vale anche per le denominazioni: i nomi – così ci viene spiegato – sono infiniti, e non possono essere tutti passati in rassegna (37.195). E tuttavia molto spesso Plinio cerca di farlo, in quella che è una tensione continua – tipica dell’opera – fra finito e infinito, fra limite e illimitato:41 dell’ambra – sulla cui origine circolano disparate e leggendarie notizie la cui veridicità viene sistematicamente smentita (37.31 ss.) – si registrano i diversi nomi utilizzati in diverse lingue, in diverse regioni, in diverse epoche storiche: elettro, lincurio, langurio (37. 33–34), sacal (37.36), harpax (37.37), gleso (37.42), succino (37.43).
Questa esaustività onomastica, se da un lato tradisce un gusto per la varietà le cui ragioni sono eminentemente estetiche, dall’altro lato può anche essere inquadrata come un tentativo di risolvere un problema che la scienza propriamente detta si troverà ad affrontare più tardi, quando, nell’era moderna, inizierà a proporsi come sapere alternativo – e superiore – rispetto ai saperi popolari. Si tratta del problema della polifonia (o della ‘multivocalità’) delle tassonomie di senso comune, che porta a moltiplicare a dismisura le denominazioni degli oggetti e dei taxa.42
Per comprendere la logica che si cela dietro la sovrabbondanza pliniana si potrebbe fare riferimento a un esempio lontano dall’esperienza antica. A fronte del moltiplicarsi degli zoonimi popolari, la soluzione escogitata da un naturalista come Linneo è stata quella di creare la nomenclatura binomiale, proposta come una convenzione univoca standard che facesse piazza pulita del caos sinonimico. Al contrario – almeno in questo contesto – Plinio sembra scegliere appositamente proprio la logica dell’accumulo come criterio possibile di disambiguamento.43
In questo, sicuramente gioca un ruolo importante la logica imperialistica dell’inclusione delle culture straniere sotto l’egida di Roma: nel panottico della Naturalis historia, che ha in Roma e nel potere di Vespasiano e Tito i suoi centri ideologici, quante più denominazioni e saperi locali si registrano degli stessi oggetti, affiancandoli gli uni agli altri, tanto più sarà possibile trovare un accordo referenziale oggettivo che non induca ad equivoci, perché “i nomi delle pietre cambiano abbastanza di frequente, mentre la materia è per lo più la stessa” (37. 195: mutari nomina in eadem plerumque materia).
Nella pratica, tuttavia, questo criterio non sempre viene osservato. Il problema della multivocalità, ad esempio, è molto sentito quando si tratta delle piante medicinali – dal cui uso corretto può dipendere la vita o la morte dei malati –, ma per altre tipologie di oggetti può invece capitare che l’esigenza pliniana di includere tutte le denominazioni possibili conosca delle battute di arresto: ecco dunque che i nomi ‘barbarici’ di certe località geografiche o di certe specie di palme vengono risparmiati al lettore o perché impronunciabili, o perché – così dice Plinio – poco utili.44
Si è parlato della centralità che occupa – nel progetto pliniano – il versante dell’applicazione e dell’uso dei materiali e delle sostanze. Conoscere, per Plinio, non è infatti soltanto un esercizio contemplativo e teorico, perché il fine della Naturalis historia è soprattutto quello di iuvare mortales – cosa che rende gli uomini simili agli dèi. E, in un’ottica che è tipica del moralismo romano – un’ottica che risponde, peraltro, anche alle finalità che gli Stoici attribuiscono al sapere –, le conoscenze e le applicazioni non possono essere sganciate dal principio della responsabilità morale; la fisica e la logica, cioè, non possono non andare di pari passo con l’etica.45
Il sapere universale disegnato dalla Naturalis historia non raccoglie, in questo senso, soltanto le qualità e le quantità, non registra soltanto le applicazioni e gli impieghi dei materiali, ma si concentra anche, per così dire, sulle loro affordances morali ed estetiche.
Dell’oro, ad esempio, non basta dire quanto sia plasmabile, che si accende con estrema difficoltà, che si fa fondere con il piombo per purificarlo (è la tecnica della ‘coppellazione’), che non è soggetto alla ruggine o ad altre sostanze che ne diminuiscano il peso, o che può essere filato e tessuto come la lana (33.59–62), che in natura si trova spesso mescolato in varie proporzioni con l’argento (33.80);46 si deve dire anche che può agire come base di medicamenti (cfr. ad es. 33.84), ma anche che può avere effetti nefasti sui costumi o sul buon gusto: solo per fare tre esempi, in 33.8 ss., Plinio osserva che l’oro ha cominciato a un certo punto a soppiantare l’uso del ferro per gli anelli, trasformando in lusso e ostentazione quella che invece un tempo era un’insegna del valore militare; può inoltre essere usato per cesellare soggetti sconci sulle coppe (33.4) e addirittura – come ha fatto Nerone con l’Alessandro di Lisippo – può anche essere impiegato per rovinare splendide statue in bronzo (34.63).47
I mores che Plinio chiama in causa, tuttavia, non implicano soltanto una forma di responsabilità nei confronti degli altri uomini, o anche nei confronti di quello che i Romani chiamano il decorum, le cui implicazioni sono insieme etiche ed estetiche.48 Si tratta anche di responsabilità che gli uomini hanno nei confronti della Natura stessa.
Esemplare, in questo senso, è l’incipit del libro XXXIII, con la tirata contro l’avidità umana che spinge l’uomo a cercare i metalli nelle viscere della Terra:
persequimur omn<e>s eius fibras vivimusque super excavatam, mirantes dehiscere aliquando aut intremescere illam, ceu vero non hoc indignatione sacrae parentis exprimi possit. imus in viscera et in sede manium opes quaerimus, tamquam parum benigna fertilique qua calcatur. et inter haec minimum remediorum gratia scrutamur, quoto enim cuique fodiendi causa medicina est? quamquam et hoc summa sui parte tribuit ut fruges, larga facilisque in omnibus, quaecumque prosunt. illa nos peremunt, illa nos ad inferos agunt, quae occultavit atque demersit, illa, quae non nascuntur repente, ut mens ad inane evolans reputet, quae deinde futura sit finis omnibus saeculis exhauriendi eam, quo usque penetratura avaritia. quam innocens, quam beata, immo vero etiam delicata esset vita, si nihil aliunde quam supra terras concupisceret, breviterque, nisi quod secum est! (nat. 33.1–3).49
Tentiamo di raggiungere tutte le fibre intime della terra e viviamo sopra le cavità che vi abbiamo prodotto, meravigliandoci che talvolta essa si spalanchi o si metta a tremare, come se, in verità, non potesse esprimersi così l’indignazione della nostra sacra genitrice. Penetriamo nelle sue viscere e cerchiamo ricchezze nella sede dei Mani, quasi che fosse poco generosa e feconda là dove la calchiamo sotto i piedi. E fra tutti gli oggetti della nostra ricerca pochissimi sono destinati a produrre rimedi medicinali: quanti sono infatti quelli che scavano avendo come scopo la medicina? Anche questa tuttavia la terra ci fornisce alla sua superficie, come ci fornisce i cereali, essa che è generosa e benevola in tutto ciò che ci è di giovamento. Le cose che ci rovinano e ci conducono agli inferi sono quelle che essa ha nascosto nel suo seno, cose che non si generano in un momento: per cui la nostra mente, proiettandosi nel vuoto, considera quando mai si finirà, nel corso dei secoli tutti, di esaurirla, fin dove potrà penetrare la nostra avidità. Quanto innocente, quanto felice, anzi persino raffinata sarebbe la nostra vita, se non altrove volgesse le sue brame, ma solo a ciò che si trova sulla superficie terrestre, solo – in breve – a ciò che le sta accanto!50
Non mi dilungo su questo passo, che è stato anche recentemente trattato da Orietta Dora Cordovana ed Eugenia Lao, e su cui ritorna, nel suo intervento ospitato nel presente numero, anche Elisa Romano.51 Mi limito soltanto ad osservare come la visione organicistica sottesa al brano mostra alcune affinità, mutatis mutandis, con la cosiddetta ‘ipotesi Gaia’ proposta da Lovelock nel famoso e fortunato saggio omonimo del 1979.52
Se la Terra è un unico organismo vivente capace di auto-regolarsi – e che finalisticamente nasconde agli uomini quei prodotti che potrebbero loro risultare nocivi –, i metalli rappresentano, alla lettera, le sue stesse viscere; ed estrarli è un modo di infliggerle drammatiche sofferenze, causando, al contempo, le sue catastrofiche reazioni: voragini e terremoti, in quest’ottica, sono una responsabilità diretta degli uomini che violano l’equilibrio della loro grande madre.
In uno slancio apparentemente primitivista, Plinio si spinge ad immaginare un ipotetico mondo sostenibile in cui gli uomini fanno uso non delle interiora della Terra – che sono per giunta risorse esauribili –, ma dei soli frutti che spontaneamente essa ci offre facendoli affiorare sulla sua superficie, tanto più che il principale uso virtuoso dei metalli – quello medico – viene subito indicato come estremamente limitato.53
Su questa scia, altrettanto esemplare è l’incipit del libro XXXVI, in cui lo scavo delle montagne per estrarre i marmi, ad esempio, è descritto come un pervertimento della natura, del suo equilibrio e dei suoi scopi:
montes natura sibi fecerat <u>t quasdam compages telluris visceribus densandis, simul ad fluminum impetus domandos fluctusque frangendos ac minime quietas partes coercendas durissima sui materia. caedimus hos trahimusque nulla alia quam deliciarum causa, quos transcendisse quoque mirum fuit. in portento prope maiores habuere Alpis ab Hannibale exsuperatas et postea a Cimbris: nunc ipsae caeduntur in mille genera marmorum. promunturia aperiuntur mari, et rerum natura agitur in planum; evehimus ea, quae separandis gentibus pro terminis constituta erant, navesque marmorum causa fiunt, ac per fluctus, saevissimam rerum naturae partem, huc illuc portantur iuga, maiore etiamnum venia quam cum ad frigidos potus vas petitur in nubila caeloque proximae rupes cavantur, ut bibatur glacie (nat. 36.1–2).54
Ma le montagne la natura le aveva fatte per sé come una sorta di scheletro che doveva consolidare le viscere della terra e nel contempo frenare l’impeto dei fiumi e frangere i flutti marini, nonché stabilizzare gli elementi più turbolenti con l’aiuto della loro solidissima materia. Noi invece tagliamo a pezzi e trasciniamo via, senza nessun altro scopo che i nostri piaceri, montagne che un tempo fu oggetto di meraviglia anche solo valicare. I nostri avi considerarono quasi un prodigio che le Alpi fossero state attraversate da Annibale, e più tardi dai Cimbri – ora questi stessi monti vengono fatti a pezzi per ricavarne marmi delle specie più varie. I promontori vengono spaccati per lasciare passare il mare, e la natura è ridotta ad un piano livellato. Svelliamo ciò che era stato posto a far da confine fra popoli diversi, si fabbricano navi per caricarvi i marmi, e le vette montane sono portate a destra e a sinistra sui flutti, l’elemento naturale più selvaggio – la cosa rimane comunque più perdonabile di quando, per avere bevande fresche, se ne va a cercare il vaso fra le nubi e, per averle ghiacciate, si scavano le rocce più vicine al cielo.55
Se confrontiamo questo passo con quello del II libro citato all’inizio del presente contributo (2.10 s.), vediamo come gli agenti umani siano designati come i principali sovvertitori di quell’equilibrio dinamico degli elementi che dovrebbe tenere insieme il cosmo. Per effetto degli scavi e del conseguente livellamento della superficie terrestre, gli elementi si confondono in quella che appare una sorta di indistinzione pre-cosmica – simile per intenderci al caos descritto nel primo libro delle Metamorfosi di Ovidio (1.5 ss.): le montagne, fatte a pezzi, vengono sbattute qua e là dai marosi delle acque, i fiumi esondano per invadere lo spazio della terra. L’equilibrio iniziale progettato dalla Natura provvidente, in altri termini, si rompe, e nessuna stabilità è più possibile, mentre gli elementi, che dovrebbero distinguersi e avere ognuno le proprie sedi, si confondono l’uno con l’altro.
Plinio, dunque, sembra richiamare i suoi lettori ad un uso responsabile delle risorse e degli elementi, senza però arrivare mai a dire esplicitamente che l’impiego umano dei materiali e delle sostanze che la Natura ha pensato di nascondere debba a tutti i costi essere evitato: lo sfruttamento delle risorse minerarie, per quanto indicato da Plinio come abominevole e pericoloso, è anzi implicitamente presentato come un punto da cui l’umanità non può più tornare indietro, e che deve pur essere raccontato ‘storicamente’ in quella che sembra una vera e propria presa d’atto. Pensiamo, ad esempio, alle minuziose descrizioni delle miniere e dei processi estrattivi che troviamo qua e là all’interno dell’opera, e che ci mostrano come il primitivismo pliniano sia di fatto più apparente che reale.56
Più che vagheggiare realmente un ritorno all’età dell’oro Plinio invita semmai al modus, ovvero alla misura. Sia nel caso che si tratti di doni che la Natura ci offre spontaneamente, sia che si tratti di organi vitali che strappiamo con violenza al suo corpo sofferente, i metalli, i minerali, le pietre hanno sempre una valenza ambivalente: il ferro può essere usato sia per coltivare la terra che per combattere le guerre (33.148), e dei metalli preziosi, come l’oro, si possono fare sia usi pubblici – per onorare gli dèi, ad esempio, ma anche per creare medicamenta – che privati. Il fatto è che gli usi privati, in genere, tendono a sfociare – secondo Plinio – nella luxuria, ovvero in quell’eccesso che perverte ogni cosa e che erode ogni misura, portando cioè l’uomo non più a sequi naturam – motto che, ad esempio, costituisce uno degli imperativi morali degli Stoici –, ma a turbarne gli equilibri, a straziarne inutilmente le viscere, a intaccarne lo scheletro.
Il punto è però che la Natura pliniana non sempre è un’entità armonica e benevola, e anzi il suo stesso operato è spesso ambivalente, così come ambivalente è la posizione dell’uomo nel mondo. In questo, piccoli slittamenti rispetto alla teodicea degli Stoici, che costruiscono e pensano la Natura come il principale centro assiologico della morale, sono da registrare.57
Al di là di ogni ambiguità, tuttavia, una cosa è certa: la Natura è sempre – secondo Plinio – da celebrare e salutare per la sua potenza:
Salve, parens rerum omnium Natura, teque nobis Quiritium solis celebratam esse numeris omnibus tuis fave (nat. 37.205).
Salve, o Natura madre di tutte le cose; e al fatto che noi, soli fra i Quiriti ti abbiamo celebrata in tutte le tue parti, tu guarda benigna.
Si è osservato che il finale della Naturalis historia ricalca volutamente le Georgiche di Virgilio (2.173: salve, magna parens frugum, Saturnia tellus).58 Non è però un caso che là dove la magna parens era l’Italia, qui è invece diventata la Natura stessa. Questa sostituzione in parte tradisce l’ideologia di fondo che anima l’opera: dedicare l’inventario del cosmo allo iucundissimus princeps (praef. 1) significa concedergli di guardarlo con gli stessi occhi con cui la grande madre di tutto guarda sé stessa.59 Attribuire tale prerogativa al potere imperiale, tuttavia, presenta per certi versi una qualche implicazione – per così dire – ‘ecocritica’.
Tutte le volte che deve inquadrare l’inizio dei comportamenti devianti, la trattazione pliniana punta il dito contro personaggi come Scauro, Marco Antonio, Nerone: sono loro che hanno iniziato, con la loro propensione alla luxuria e all’eccesso, il cammino del sovvertimento.60 Ribadire con insistenza che con Vespasiano e Tito la rotta è cambiata è anche un modo non solo di differenziarli dai principes e dai politici corrotti e megalomani del passato, ma anche di investirli di una missione analoga – e ancora più grande – rispetto a quella di cui si era fatto carico Ottaviano Augusto. Se quest’ultimo era stato indicato da Virgilio come il garante della pace dei campi italici, devastati dal sangue versato e dagli scompigli delle guerre civili, Plinio sembra qui voler implicitamente lasciar intendere che con Vespasiano e Tito si potrà finalmente invertire la rotta politica ad un livello ancora più alto, che è quello cosmico. Lo iucundissimus princeps e il maximus princeps possono così essere investiti del ruolo di guardiani di un nuovo equilibrio universale che riguarda non più la sola Italia, bensì – per così dire – anche l’insieme delle partes (regioni, organismi, sostanze, materiali) che compongono il corpo vivo della Natura tutta; un equilibrio che – in linea, fra l’altro, con i dettami dello stoicismo – è anche e soprattutto, come si è visto, un equilibrio morale.
Certo, nel mondo di Plinio non esiste – come si è visto – la ‘chimica’ così come noi oggi la pensiamo e la pratichiamo, e non esistono neanche nozioni che siano completamente sovrapponibili alle nostre idee di ‘ambiente’ o di ‘eco-sistema’. Forse, però, non è del tutto lontano dalle intenzioni pliniane pensare a una possibile ‘politica cosmica’ da ascrivere ai Flavi o, anche, a una ‘etica ecologica’ (o, meglio, a una ‘morale cosmica’) che poggi su un’idea della Natura e dell’umanità – volta, nella sua fragilità, alla luxuria, al consumo e all’eccesso – per nulla rassicurante, e che riconosce che da un equilibrio si può sempre passare ad un altro equilibrio, in un rapporto che, con l’ambiente animato che panteisticamente e immanentisticamente circonda i mortali, oscilla continuamente fra tensione e armonia.61
1 Contro l’idea di trattare la ‘storia dell’arte pliniana’ come una semplice digressione, cfr. Thomas R. Laehn, Pliny’s Defense of Empire (London-New York: Routledge, 2013), 16. Più in generale, per la necessità di una lettura ‘macro-testuale’ dell’opera, cfr. Aude Doody, Pliny’s Encyclopedia. The Reception of the Natural History (Cambridge: Cambridge University Press, 2010), 1 ss. e 11 ss. Per un quadro sugli studi più recenti sulla storia dell’arte pliniana cfr. bibliografia indicata nella n. 1 dell’Introduzione al presente numero speciale.
2 Sulla necessità di leggere la sezione finale della Naturalis historia alla luce della struttura di insieme dell’intera opera, cfr. le considerazioni espresse nell’introduzione a questo numero speciale. Specificamente sull’arte come dominio privilegiato del lusso, in Plinio, cfr. ad es. Valérie Naas, Le projet encyclopédique de Pline l’Ancien (Rome: Éditions de l’École Française de Rome, 2002), 97 ss.
3 Sullo statuto della historia pliniana, vista sempre meno come ‘inchiesta’ e ‘ricerca’ e sempre più come ‘narrazione’, cfr. Naas, Le projet encyclopédique, 78 ss; Ead., “Indicare, non indagare: encyclopédisme contre histoire naturelle chez Pline l’Ancien?”, in Encyclopédire: formes de l’ambition encyclopédique dans l’Antiquité et au Moyen Âge, ed. Arnaud Zucker (Turnhout: Brepols, 2013), 145–166. Per un commento ‘chimico’ della Naturalis historia, cfr. Kenneth C. Bailey, The Elder Pliny’s Chapters on Chemical Subjects, Part I and Part II (Bruges: Arnold and Company, 1929 e 1932). Uno studio completo sull’osservazione pliniana di fenomeni che oggi rientrerebbero nel campo di ricerca della chimica, della mineralogia e della cristallografia è inoltre in John F. Healy, Pliny the Elder on Science and Technology (Oxford: Oxford University Press, 1999), 116 ss. e “Pliny the Elder and Ancient Mineralogy”, Interdisciplinary Science Reviews 6, no. 2 (1981): 166–180. Per il resto, cfr. i lavori sulla metallurgia pliniana di Ernesto Paparazzo, ad es. “Pliny the Elder on the Melting and Corrosion of Silver with Tin Solders: Prius liquescat argentum … ab eo erodi argentum (HN 34.161)”, The Classical Quarterly 53, no. 2 (2003): 523–529; “The Elder Pliny, Posidonius and Surfaces”, The British Journal for the Philosophy of Science 56, no. 2 (2005): 363–376; “Pliny the Elder on Metals: Philosophical and Scientific Issues”, Classical Philology 103, no. 1 (2008): 40–54; “Philosophy and Science in The Elder Pliny’s Naturalis Historia”, in Pliny the Elder: Themes and Contexts, ed. Roy K. Gibson, Ruth Morello (Leiden-Boston: Brill, 2011), 89–111.
4 La teoria dei quattro elementi, risalente ad Empedocle (V sec. a.C.), si diffonde a Roma già in età repubblicana: cfr. ad es. Cic. Acad. Pr. 26 (su cui Paparazzo, “Philosophy And Science”, 92) o anche nat. Deor 2.116, che potrebbe essere la fonte di Plinio: cfr. Duane W. Roller, A Guide to the Geography of Pliny the Elder (Cambridge: Cambridge University Press, 2022), 36.
5 Per i problemi testuali (ad es. per la scelta di seguire Müller nel leggere recurrente, anziché currente attestato nei mss.), cfr. Carolus Mayhoff (ed.), C. Plini Secundi Naturalis Historiae libri XXXVII, v. 1 (Leipzig: Teubner, 1906). Tutte le traduzioni italiane dei passi pliniani sono tratte da Gaio Plinio Secondo, Storia Naturale, vv. 1–5, a cura di Gian Biagio Conte (Torino: Einaudi, 1982–1988).
66 Gli Stoici fanno propria la teoria dei quattro elementi attribuendo facoltà attive e maschili (e dunque generative) all’aria e al fuoco e facoltà passive e femminili alla terra e all’acqua: cfr. SVF 2.412–438; 442 e 1074, per cui John M. Rist, “On Greek biology, Greek cosmology and some sources of theological pneuma”, The Concept of Spirit, ed. David W. Dockrill, R. Godfrey Tanner, Prudentia, suppl. vol. (1985): 27–47, spec. 43; David Leith, “The Pneumatic Theories of Erasistratus and Asclepiades”, in The Concept of Pneuma after Aristotle, ed. by Sean Coughlin, David Leith, Orly Lewis (Berlin: Edition Topoi, 2020), 131–156; Teun Tieleman, “Cleanthes’ Pneumatology. Two Testimonies from Tertullian”, ibid., 157–170. Cfr. anche Plin. nat. 2.116 e 223 (su cui Paparazzo, “Philosophy And Science”, 93). Sulle teorie stoiche che diventano per larga parte senso comune già in Cicerone, cfr. ad es. Daryn Lehoux, What Did The Romans Know? An Inquiry into Science and Worldmaking (Chicago: The University of Chicago Press, 2012), 12 e 24 ss. (e spec. 155 ss. per la cosmologia).
7 Si è sempre dato per scontato che gli interessi filosofici di Plinio fossero periferici e marginali, o comunque caotici: cfr. ad es. Pierre Grimal, “Pline et les philosophes”, Helmantica 37 (1986): 239–247; Jean Paul Dumont, “L’idée de Dieu chez Pline (HN 2, 1–5, 1–27)”, Helmantica 37 (1987): 219–237; Michael Lapidge, “Stoic Cosmology and Roman Literature, First to Third Century A.D.”, Austieg und Niedergang der römischen Welt 36 (1989): 1379–1429, spec. 1411 s.; Andrew Wallace-Hadrill, “Pliny the Elder and Man’s Unnatural History”, Greece & Rome 37 (1990), 80–96; Roger French, Ancient Natural History: Histories of Nature (London: Routledge, 1994), 196 ss.; Miriam Griffin, “The Elder Pliny on Philosophers”, in Vita vigilia est: Essays for Barbara Levick, ed. Edward Bispham, Greg Rowe, and Elaine Matthews, Bulletin of the Institute of Classical Studies Supplement 100 (2007): 85–101. Di diverso parere Paparazzo “Pliny the Elder on the Melting and Corrosion”, 523 ss.; “The Elder Pliny, Posidonius and Surfaces”, 363 ss.; “Pliny the Elder on Metals”, 40 ss.; “Philosophy and Science”, 89 ss. e Pietro Li Causi, “Il corpo dei viventi. La “stoicizzazione” dell’anatomo-fisiologia aristotelica in Plin. nat. XI”, in Corpi e saperi. Riflessioni sulla trasmissione della conoscenza, a cura di Sabina Crippa (Bologna: Pendragon, 2019), 361–395 e Laehn, Pliny’s Defense of Empire, 34.
8 IUPAC, Compendium of Chemical Terminology, 2nd ed. (the “Gold Book”), compiled by Alan D. McNaught and Andrew Wilkinson (Oxford: Blackwell Scientific Publications, 1997). Online version (2019–) created by Stuart J. Chalk: https://doi.org/10.1351/goldbook.
9 Per le interazioni di caldo, freddo, secco, umido, cfr. ad es. SVF 2.405–411 o anche Arist. De gen. et corr. 2.2.329 b 24 ss. Lehoux, What did the Romans Know, 160 s. mostra come la vulgata dei quattro elementi e delle loro quattro qualità principali in età imperiale si costruisca come un misto di teorie aristoteliche e stoicheggianti. Il fatto che Plinio non faccia riferimento esplicito alla teoria delle qualità primarie non significa che questa esuli dalla sua visione del mondo. Essa sembra infatti attiva in sordina, ad es., ogni volta che si determina una contrapposizione fra diverse caratteristiche fisiche di determinati oggetti: cfr. ad es. 12.89 (il cinnamomo che ama i terreni secchi e odia l’umido) o 2.114 (le esalazioni secche o umide della terra o dei fiumi indicate come cause dei venti). Il fatto che Plinio sia restio a individuare le cause ultime degli oggetti, peraltro, potrebbe essere uno dei motivi per cui il riferimento alle qualità primarie rimanga sempre implicito nel corso della Naturalis historia.
10 Cfr. ad es. Lehoux, What Did The Romans Know, 226 ss. sui rischi delle teorie della ‘incommensurabilità’ – ad es. di Thomas S. Kuhn, La struttura delle rivoluzioni scientifiche, trad. di Adriano Carugo (Torino: Einaudi, 2009), ma anche di Paul K. Feyerabend, Contro il metodo. Abbozzo di una teoria anarchica della conoscenza, trad. di Libero Sosio (Milano: Feltrinelli, 2013) –, che inducono di fatto a postulare la possibilità che gli ‘scienziati’ vivano in ‘mondi differenti’ prima e dopo le rivoluzioni scientifiche.
11 Sia pure a partire da uno sguardo per molti versi neo-positivistico, i commenti di Bailey, The Elder Pliny’s Chapters, sono utili, in questo senso, per ‘tradurre’ osservazioni disseminate nella Naturalis historia nel lessico della chimica contemporanea.
12 Bailey, The Elder Pliny’s Chapters, Part I, 15.
13 Per la trattazione pliniana sul bronzo cfr. ad es. Jacob Isager, Pliny on Art and Society (London-New York: Odense University Press, 1998), 80 ss., o anche Gianfranco Adornato, Eva Falaschi, “Storia e aneddoti: Plinio e il bronzo”, in Il restauro dei grandi bronzi archeologici. Laboratorio aperto per la Vittoria Alata di Brescia, a cura di Francesca Morandini, Anna Patera (Firenze: Edifir, 2020), 81–88.
14 Antonio Corso in Plinio, Storia naturale, diretta da G.B. Conte, v. 5 (Torino: Einaudi 1988), 104. Cfr. anche, a tale proposito, Valérie Naas, Anecdotes artistiques chez Pline l’Ancien. La constitution d’un discours romain sur l’art (Paris: Sorbonne Université Presses, 2023), 29 ss.
15 Cfr. 36.14: sed in Pariorum mirabile proditur, glaeba lapidis unius cuneis dividentium soluta, imaginem Sileni intus extitisse (“ma ecco il prodigio che si racconta a proposito dei marmi di Paro: una volta, dentro ad un masso che gli operai avevano tagliato mentre fendevano il marmo con i cunei, apparve l’immagine di un Sileno”). Cfr. anche Cic. div. 1.23 e 2.48; Quint. 2.19.3 e Antonio Corso in Conte, Plinio, Storia Naturale, v. 5, ad Plin. nat. 36.14.
16 Plasmare i materiali della Natura significa dunque mettere le mani su una carne viva. Non bisogna dimenticare che il principio del sequi naturam è di fatto il fondamento chiave della morale stoica (cfr. ad es. SVF 3. 2–19). Quanto più gli artisti imitano la natura nel tirarle fuori, tanto più sono valenti. Cfr. ad es., sul realismo pliniano, Isager, Pliny on Art and Society, 91 s. e Sorcha Carey, Pliny’s Catalogue of Culture. Art and Empire in the Natural History (Oxford: Oxford University Press, 2003), 102 ss. L’adesione pliniana al realismo non è dunque testimonianza di pessimo gusto; piuttosto è un’affermazione di un principio filosofico e morale. Cfr. su questo punto anche Naas, Anecdotes artistiques, 30 s.
17 Cfr. ad es. 2.1–27; 33.1; 37.205 e Italo Calvino, “Il cielo, l’uomo, l’elefante”, in Perché leggere i classici (Milano: Mondadori, 1991), 50–63, spec. 51 ss.; Mary Beagon, Roman Nature. The Thought of Pliny the Elder (Oxford: Clarendon Press, 1992), 26 ss; Naas, Le projet encyclopédique, 53 ss. La visione pliniana è intrisa, secondo Verity Platt, “Ecology, Ethics and Aesthetics in Pliny the Elder’s Natural History”, Journal of the Clark Art Institute 17 (2018): 219–242, di spunti proto-ecologici nella misura in cui è fortemente intrecciata all’idea stoica della oikeiôsis, che ‘apparenta’ l’uomo alla Natura divina rendendolo, assieme ad altri organismi ed enti, una sua componente. In tale visione, paradossalmente, antropocentrismo ed ‘ecologismo’ non entrerebbero in contraddizione. Sul mondo classico come un mondo ‘prima della natura’ (intesa come oggetto separato polarmente dalla sfera umana e dalla cultura), cfr. Brooke Holmes, “Foreword: Before Nature?”, in Ecocriticism, Ecology, and the Culture of Antiquity, ed. Christopher Schliephake (Lahnam-Boulder-New York-London: Lexington Books, 2016), ix–xiv, spec. x. L’idea che la Natura pliniana operi in maniera antropocentrica (tesi sostenuta con forza da Beagon, Roman Nature) è stata recentemente messa in crisi ad es. in Laehn, Pliny’s Defense of Empire, 32 ss.
18 Cfr. 33.1–3 (i visceri e i frutti della Natura); 34.2 (la terra ‘esausta’ che stenta a produrre metalli); 34.164 (le miniere abbandonate dove il piombo ricresce spontaneamente); 36.99 (la pietra ‘fuggitiva’, dotata di capacità motorie); 36.125 (i marmi che si moltiplicano nelle cave); 36.126 (rappresentazione antropomorfa del magnete); 37.100 (le pietre maschio e le pietre femmina). Cfr. anche Healy, “Pliny the Elder and Ancient Mineralogy”, 172 e Antonio Corso in Conte, Plinio, Storia Naturale, v. 5, ad ll., secondo cui l’idea che tutte le cose – comprese le pietre – abbiano un’anima potrebbe risalire a Papirio Fabiano, che Plinio cita come sua fonte per i libri II, VII, IX, XI–XV, XVII, XXIII, XXV, XXVIII e XXXVI. Più in generale, cfr. anche Sonia Macrì, Pietre viventi. I minerali nell’immaginario del mondo antico (Torino: UTET, 2009), ad es. 22 ss. e 29 ss.
19 Sulle conoscenze ‘chimiche’ di Plinio cfr. Frank Greenaway, “Chemical Tests in Pliny”, in Science in the Early Roman Empire: Pliny the Elder, his Sources and Influences, ed. Roger K. French, Frank Greenaway (London-Sydney: Croom Helm, 1986), 47–61 e Healy, Pliny the Elder on Science and Technology, 116 ss.
20 Il testo qui riprodotto si discosta da quello di Mayhoff, C. Plini Secundi, ad l. nell’accogliere la congettura di Bailey (profusum in aquam frigidam in luogo di perfusum aqua frigida).
21 Per una ‘traduzione chimica’ di questo passo, cfr. Bailey, The Elder Pliny’s Chapters, Part II, ad ll. Mayhoff, C. Plinii Secundi, ad l., legge vasorum laddove i mss. hanno vase o vaso, e aggiunge in davanti a mortario.
22 Cfr. ad es. Adornato, Falaschi, “Storia e aneddoti”, 82.
23 Cfr. SVF 2.463–481 e Paparazzo, “The Elder Pliny, Posidonius and Surfaces”, spec. 366 ss.
24 Su questo passo, cfr. Paparazzo, “The Elder Pliny, Posidonius and Surfaces”, 365 s. (che mostra come le descrizioni pliniane siano ispirate dalla teoria posidoniana delle superfici, che modifica in gran parte la teoria stoica delle fusioni e dei mescolamenti della materia). Per il brano pliniano in questione, cfr. anche Dioscoride 5.84.
25 Cfr. Eugenia Lao, “Luxury and the Creation of a Good Consumer”, in Pliny the Elder: Visions and Contexts, ed. Ruth Morello and Roy K. Gibson (Leiden-Boston: Brill, 2011): 35–56; Adornato, Falaschi, “Storia e aneddoti”, 82.
26 Devo ad Antonella Maria Maggio questa osservazione.
27 Cfr. ad es., per l’atteggiamento pliniano nei confronti della ricerca delle cause e delle regolarità della natura, 2.116–121; 11.8; Beagon, Roman Nature, 44 ss. e Pietro Li Causi, Sulle tracce del manticora. La zoologia dei confini del mondo in Grecia e a Roma (Palermo: Palumbo, 2003), 194 ss.; 198 ss.
28 Per l’accettabilità dell’uso medico dei metalli cfr. ad es. 33.2 (riportato infra al par. 4). Non si trova invece una accettazione esplicita dell’arte (il cui uso, specie se pubblico, è comunque lodato passim: cfr. ad es. Isager, Pliny on Art and Society, 83 s.; Naas, Anecdotes artistiques, 252 ss.).
29 Cfr. 33.1. Rhiannon Ash, “Pliny the Elder’s Attitude to Warfare”, in Pliny the Elder: Themes and Contexts, 1–19 ha comunque mostrato quanto l’atteggiamento pliniano nei confronti della guerra sia ambivalente, variegato e per molti versi graduale: si va dalle guerre accettabili e onorevoli al massimo della perversione e della brutalità rappresentato dalle guerre civili. Per il resto, si rileva come la guerra, sia pensata 1) come una componente endemica della vita di tutti gli organismi (che rende l’uomo simile agli altri animali); 2) come marcatore cronologico per inquadrare gli eventi nella linea del tempo; 3) come motore del progresso scientifico e culturale o dell’ampiamento delle conoscenze geografiche.
30 L’idea dell’opera pliniana come ‘cosmogramma’ è di John Henderson, “The Nature of Man: Pliny, Historia Naturalis as Cosmogram”, Materiali e discussioni per l’analisi dei testi classici 66 (2011), 139–171. L’idea che in Plinio ci sia una identificazione profonda fra la struttura del testo e il mondo della natura è stata avanzata da Carey, Pliny’s Catalogue of Culture, 19 ss. e Mary Beagon, “Burning the Brambles: Rhetoric and Ideology in Pliny, Natural History 18 (1–24)”, in Ethics and Rhetoric: Classical Essays for Donald Russell on His Seventy-Fifth Birthday, ed. Doreen Innes, Harry Hine, Cristopher Pelling (Oxford: Oxford University Press, 1995), 118 ss. Carey e Beagon ritengono che tale struttura segua gli snodi della scala naturae aristotelica, laddove invece Laehn, Pliny’s Defense of Empire, 9 ss. individua una struttura ad anello (o chiastica), con dieci libri sulla materia inanimata (II–VI e XXXIII–XXXVII); dieci sugli esseri viventi (VII–XI e XXVIII–XXXII) e 16 libri sulle piante (XII–XVIII e XIX–XXVII). Che la sostanza stessa del progetto intellettuale di Plinio coincida con il modo stesso di organizzare i materiali raccolti, è idea di Eugenia Lao, “Taxonomic Organization in Pliny’s Natural History”, Papers of the Langford Latin Seminar 16 (2016): 209–246. Più nello specifico, la Lao, ispirandosi ai modelli cognitivisti, mette in rilievo l’uso pliniano delle tassonomie popolari nell’organizzazione della materia; idea, questa, già in nuce in Li Causi, Sulle tracce del manticora, 194 ss. ed esposta in maniera più decisa in Pietro Li Causi, “I generi dei generi (e le specie): le marche di classificazione di secondo livello dei Romani e la biologia di Plinio il Vecchio”, Annali Online di Ferrara-Lettere 5, no. 2 (2010) 107–142. Si vedano anche le osservazioni presenti nell’articolo di Rosa Rita Marchese che collega l’idea pliniana della divisione del sapere in parti al problema della finitezza e della fragilità umane.
31 Giorgio Raimondo Cardona, La foresta di piume. Manuale di Etnoscienza (Roma-Bari: Laterza, 1985), 79.
32 Senza approfondire il dibattito sulla struttura della Naturalis historia, segnalo che il modello qui proposto presenta alcuni punti di contatto con Lao, “Taxonomic Organization”, spec. 233 ss., che individua una partizione di primo livello, focalizzata sui poli mundus/caelum (2.1.153), aer/caelum (2.12–153), terra/terrarum orbis (da 2.154 a tutto il libro VI) per poi passare ad Europa (libri III–IV), Africa (5.1–46) e Asia (5.47–6.205), e una partizione di secondo livello per gli elementi trattati nei libri VII–XXXVII, che comprende gli animantes – ovvero gli esseri dotati di anima, che per Plinio sono sia gli animalia (uomini e altri animali) che le piante (cfr. ad es. 12.1) – e le parti della natura prive di anima (metalli, terre, pietre, gemme). La Lao, tuttavia, non prende in considerazione le logiche partonomiche alla base della struttura pliniana.
33 Seminali gli studi di Brent Berlin, Paul Kay, Basic Color Terms: Their Universality and Evolution (Stanford: Center for the Study of Language and Information, 1969). Ma cfr. anche Eleanor Rosch, “Basic objects in natural categories”, Cognitive Psychology 8 (1976) 382–439. Specificamente per le classificazioni etnobiologiche cfr. ad es. Brent Berlin, Dennis E. Breedlove, Peter H. Raven, “General Principles of Classification and Nomenclature in Folk Biology”, American Anthropologist 75, no. 1 (1973): 214–242; Scott Atran, Cognitive Foundations of Natural History. Towards an Anthropology of Science (Cambridge: Cambridge University Press, 1990); Brent Berlin, Ethnobiological Classification. Principles of Categorization of Plants and Animals in Traditional Societies (Princeton: Princeton University Press, 1992). Uno degli assunti chiave di questi studi, quello cioè secondo cui la tendenza a distinguere fra ciò che è animato da ciò che è animato sarebbe una dotazione universale, è stato però messo in crisi dalla cosiddetta ‘svolta ontologica’ negli studi antropologici: cfr. ad es. – per il caso specifico degli Ojibwa – Tim Ingold, “Sogno di una notte circumpolare”, in Metamorfosi. La svolta ontologica in antropologia, a cura di Roberto Brigati, Valentina Gamberi (Macerata: Quodlibet, 2019), 68.
34 Oltre che Lao, “Taxonomic Organization”, 209 ss., cfr. ad es. Andrea Guasparri, “Etnobiologia e mondo antico. Una prospettiva di ricerca”, Annali Online di Ferrara – Speciale 1 (2007): 69–90 e, specificamente per Plinio, “Biologia e nomenclatura in Plinio”, in Annali Online di Ferrara – Lettere 3, no. 1 (2008): 111–123 e Li Causi, “I generi dei generi”, 107 ss.
35 Sulla logica ‘non lineare’ della disposizione pliniana della materia, cfr. Lao, “Taxonomic Organization”, 221 s.
36 Cfr. ad es. 37.30 e ss. e 37.85, laddove invece si spiega che il giudizio delle persone di sesso maschile in materia di lusso è erratico e maggiormente soggettivo. Sulla condanna moralistica della luxuria, cfr. ad es. Carey, Pliny’s Catalogue of Culture, 75 ss. Eugenia Lao, “Luxury”, 35–56 mostra come tale condanna sia ambivalente (e come Plinio, di fatto, adotti spesso il punto di vista dei consumatori di oggetti di lusso, per cui la Naturalis historia funge spesso da ‘guida pratica’). Per il complesso rapporto fra arte e morale in Plinio, cfr. Anna Anguissola, Pliny the Elder and the Matter of Memory. An Encyclopedic Workshop (New York: Routledge, 2022), spec. 31 ss.; Naas, Anecdotes artistiques, 252 ss. Più in generale, per una storia culturale della luxuria nel mondo romano, Francesca Romana Berno, Roman Luxuria: A Literary and Cultural History (Oxford: Oxford University Press, 2023). Per il linguaggio e la filosofia del moralismo romano, Sandra Citroni Marchetti, Plinio il Vecchio e la tradizione del moralismo romano (Pisa: Giardini, 1991), spec. 81 ss.; Naas, Le projet encyclopédique, 86 ss.
37 Per la trattazione pliniana delle gemme, cfr. ad es. Isager, Pliny on Art and Society, 212 ss. e Anguissola, Pliny the Elder, 13 ss.
38 Giampiero Rosati in Conte, Plinio, Storia naturale, v. 5, 744. Su una linea simile Healy, “Pliny the Elder and Ancient Mineralogy”, 178 s., secondo cui Plinio si sarebbe fermato alla mera descrizione esteriore di metalli e minerali, senza approdare a una vera e propria classificazione scientifica. Il fatto che non fosse approdato alla ‘nostra’ classificazione scientifica (o alla tavola periodica di Mendeleev) non significa però che non avesse fatto uno sforzo classificatorio tout court.
39 Antonella Maria Maggio, Roberto Zingales, Appunti di storia della chimica (Roma: Aracne, 2019), 467.
40 Cfr. in proposito, Li Causi, “I generi dei generi”, spec. 126 ss. Sulla logica pliniana dell’accumulo, cfr. ad es. Naas, Le projet encyclopédique, spec. 74 ss. Quanto al catalogo pliniano delle gemme, si è osservato come di fatto sia sovrapponibile, quanto a esaustività, ai cataloghi di gemme oggi in uso: cfr. Jordi Pérez González, “Gems in Ancient Roma: Pliny’s Vision”, Scripta Classica 38 (2019): 139–151. Cfr. anche Anguissola, Pliny the Elder, 20 ss.
41 Sul limite come idea chiave della produzione pliniana, cfr. ad es. Trevor Murphy, Pliny the Elder’s Natural History. The Empire in the Encyclopedia (Oxford: Oxford University Press, 2004), 19. Ma cfr. anche, per la tensione fra finito e non finito, Massimiliano Papini, “Firmare un’opera come se fosse l’ultima: l’imperfetto e l’incompiuto in Plinio il vecchio”, Bullettino della Commissione archeologica comunale di Roma 118 (2017): 39–54 e il contributo di Rosa Rita Marchese in questo numero.
42 Cfr. Harriet Ritvo, The Platypus and the Mermaid and Other Figments of the Classifying Imagination (Cambridge-London: Harvard University Press, 1997), 50 ss. Per la preoccupazione pliniana per le denominazioni, cfr. ad es. Aude Doody, “The Science and Aesthetics of Names in the Natural History”, in Pliny the Elder: Themes and Contexts, 113–129. Per alcuni esempi sulla ‘multivocalità’, cfr. nat. 3.103; 13.104; 14.102; 15.25; 131 s.; 18.159; 19.162; 165; 171; 20.110; 168; 170; 241; 21.49; 176–179; 22.40 s.; 43; 45; 51; 53; 62; 23.21; 27; 24.29; 90; 94; 111 s.; 121; 129–136; 137; 141; 152; 165; 184; 25.29; 35; 38; 42–44; 64; 73 s.; 84; 105; 123 s.; 140; 148; 160; 26.52; 85; 108; 132 s.; 27.28; 32; 55; 98; 113; 122; 124; 29.90; 92; 31.106; 32.134; 33.101; 126; 129 s.; 37.162; 195. N. B.: la tendenza pliniana a registrare molteplici denominazioni sembra andare in direzione opposta rispetto alla tesi di Laehn, Pliny’s Defense of Empire, 85 ss., secondo cui Plinio avrebbe visto nell’uso universale del latino una soluzione al caos onomastico. Guasparri, “Biologia e nomenclatura”, 115 ss. fa peraltro notare la predilezione di Plinio per le nomenclature greche o greco-latine (cfr. anche Lao, “Taxonomic Organization”, 235 s.).
43 Sugli attriti fra classificazioni scientifiche e classificazioni vernacolari in età moderna, cfr. Ritvo, The Platypus and the Mermaid, spec. 19 ss. e 175 ss.
44 Cfr. risp. 3.2 e 13.40, su cui Doody, “The Science and Aesthetics of Names”, 125 ss. (e, per la ‘multivocalità’ relativa alle piante medicinali, 113 ss.).
45 Cfr. ad es., a tal proposito, Sandra Citroni Marchetti, “Iuvare mortalem. L’ideale programmatico della Naturalis historia di Plinio nei rapporti con il moralismo stoico-diatribico”, Atene e Roma 27 (1982): 124–148 e “Le scelte di un intellettuale. Sulle motivazioni culturali della Naturalis historia”, in Materiali e discussioni per l’analisi dei testi classici 54 (2005), 1–31, oltre che Naas, Anecdotes artistiques, 32 s. Sulle finalità morali della conoscenza nello stoicismo, cfr. ad es. Håvard Løkke, Knowledge and Virtue in Early Stoicism (Dordrecht: Springer Netherlands, 2015).
46 N. B.: Plinio ritiene l’oro meno malleabile del piombo; dato, questo, inesatto: cfr. Bailey, The Elder Pliny’s Chapters, Part I, ad 33.59 s. e Corso in Conte, Plinio, Storia naturale, v. 5 ad l.; Healy, “Pliny the Elder and Ancient Mineralogy”, 174 s.
47 Per la trattazione sull’oro, cfr. ad es. Isager, Pliny on Art and Society, 56 ss.
48 Su decorum come concetto estetico e morale, cfr. ad es. Cic. off. 1.93 ss., su cui ad es. Giusto Picone, Rosa Rita Marchese (a cura di), Cicerone, De officiis. Quel che è giusto fare (Torino: Einaudi, 2012), ad l.
49 Oltre alla lezione vivimusque sono attestate le varianti vidimusque e vitemusque. Anche le varianti excavato e excavatos montes sono attestate al posto di excavatam: cfr. Mayhoff, C. Plini Secundi, ad l.
50 Tutte le traduzioni del libro XXXIII sono di Giampiero Rosati in Conte, Plinio, Storia naturale, v. 5.
51 Cfr. Orietta Dora Cordovana, “Pliny the Elder and Ancient Pollution”, in Pollution and the Environment in Ancient Life and Thought, ed. Orietta Dora Cordovana, Gian Franco Chiai (Göttingen: Franz Steiner Verlag, 2017), 108–129, spec. 126 s.; Lao, “Taxonomic Organization”, 236 ss. e il contributo di Elisa Romano presente in questo numero (§2).
52 Cfr. James Lovelock, Gaia. Nuove idee sull’ecologia, trad. di Vania Bassan Landucci (Torino: Bollati Boringhieri, 20213) per cui si veda, in particolare, l’introduzione di Telmo Pievani (5 ss.).
53 Un’idea simile è espressa anche in 35.159, in cui si dice che gli oggetti di terracotta basterebbero a soddisfare i bisogni umani comunemente espletati per mezzo di utensili in metallo.
54 Ut prima di quasdam è un’integrazione proposta da Fröhner, per cui – anche per altre questioni testuali di minore entità – cfr. Mayhoff, C. Plini Secundi, ad l.
55 La traduzione è di Rossana Mugellesi in Conte, Plinio, Storia Naturale, v. 5.
56 Cfr. ad es. 33.62; 70 ss.; 74 ss.; 95 ss.; 111; 34.94.
57 Isager, Pliny on Art and Society, 83 s.; Naas, Le projet encyclopédique, 95 ss.; Carey, Pliny’s Catalogue of Culture, 83; 103 s.; Murphy, Pliny the Elder’s Natural History, 75 s. Per luxuria cfr. n. 34. Per l’ideale stoico del sequi naturam, cfr. n. 16.
58 Per l’atteggiamento ambivalente di Plinio nei confronti di Virgilio, cfr. Richard T. Bruère, “Pliny the Elder and Virgil”, Classical Philology 51, no. 4 (1956): 228–246 (spec. 245 per il passo in questione) e soprattutto Laehn, Pliny’s Defense of Empire, 66 s. e 89 s.
59 Per un confronto fra l’imperialismo virgiliano e l’imperialismo ‘cosmico’ pliniano cfr. ad es. Andrew Fear, “The Roman’s Burden”, Pliny the Elder: Themes and Contexts, 21–34, o, più in generale, Naas, Le projet encyclopédique, 70 ss.; Carey, Pliny’s Catalogue of Culture, 41 ss.; Murphy, Pliny the Elder’s Natural History, 5 ss.; Laehn, Pliny’s Defense of Empire, spec. 57 ss.
60 Cfr. ad es. 8.55; 34.63; 84; 36.7; 116; 37.11: cfr. ad es. Isager, Pliny on Art and Society, 83 s.; Carey, Pliny’s Catalogue of Culture, 104. Sulla rappresentazione positiva dei membri della dinastia flavia in chiave antineroniana, cfr. anche Naas, Le projet encyclopédique, 69 ss.
61 Cfr. a tale proposito Beagon, Roman Nature, 36.