Tecnologia, natura, etica. Il vetro e le pietre trasparenti nell’enciclopedia pliniana

Anna Anguissola

Università di Pisa

/ Abstract

Questo articolo tratta le strategie narrative e i concetti che hanno guidato Plinio il Vecchio nel suo racconto della natura, grazie all’analisi di un numero di passi dal Libro 26. I paragrafi finali di questo libro riassumono tre punti chiave sviluppati nel trattato: il ruolo della creatività umana, l’uso dei sensi per classificare il mondo naturale e la relazione tra morale umana e norme naturali. Questi punti sono esemplificati dal vetro, dalle pietre trasparenti (lapis specularis e phengites) e dall’ossidiana. Seppur all’apparenza aneddotici, questi brani sono cruciali sia allo scopo di condurre la narrazione verso l’ultimo libro, sia ai fini del discorso di Plinio sulla relazione tra materiali naturali e creatività umana. Sottolineando i principi di organizzazione adottati da Plinio, l’articolo affronta le premesse filosofiche, la prospettiva storica e il tessuto epistemologico della Naturalis historia.

The paper engages with the narrative strategies and concepts that guide Pliny the Elder’s account of the natural world by exploring a small set of passages from the encyclopedia’s Book 36. This book’s final paragraphs summarize three key points developed in the treatise: the role of human ingenuity, the ability of senses to classify the natural world, and the relationship between human morals and natural norms. These points are exemplified by glass, transparent stones (lapis specularis and phengites), and obsidian. Although apparently anecdotal, these passages are key both in constructing a narrative progression towards the treatise’s final book and to Pliny’s discourse about the relationship between natural materials and human ingenuity. While highlighting Pliny’s organizing principles, the paper addresses the Naturalis Historia’s philosophical premises, historical perspective, and epistemological fabric. 

/ Keywords

Pliny the Elder; Glass; Transparent stones; Obsidian.

Introduzione

Per secoli, i lettori hanno affrontato gli ultimi cinque libri della Naturalis historia come una sezione dell’opera distinta e autonoma, una raccolta di notizie dedicata alle arti figurative.1 Uno sguardo più attento, tuttavia, rivela come solo alcune porzioni dei libri XXXIII e XXXIV sui metalli trattino di oreficeria, statuaria e altre produzioni artigianali di pregio. In maniera analoga, la pittura è solo uno dei prodotti delle terre, utilizzate nelle ricette dei pigmenti, che Plinio il Vecchio discute nel libro XXXV. Infine, le funzioni delle pietre nei libri XXXVI e XXXVII sono oggetto di un esame assai più articolato rispetto al loro impiego per la creazione di statue, monumenti architettonici, gemme incise o incastonate in gioielli. Oggetto del discorso che si dipana lungo i libri conclusivi dell’enciclopedia sono i materiali presenti in natura, rispetto ai quali i prodotti d’arte costituiscono solo una tra le numerose applicazioni. Ciononostante, queste dense sezioni ‘sulle arti figurative’ sono legate dal rilievo che in esse assume un nodo tematico e organizzativo essenziale nella trama della Naturalis historia: il rapporto tra l’azione creatrice della Natura – di cui la materia è espressione – e dell’uomo.2

Le liste pliniane di fatti, sostanze, oggetti e creature restituiscono un’immagine della Natura in grado di permeare ogni elemento di questa trama, attribuendo ad esso forma, proprietà e relazioni. La ratio del disegno naturale elude l’ingegno umano, che può tuttavia riconoscerne i risultati e la deliberazione (37.60). Da un lato, Plinio costruisce un’immagine della Natura quale forza creatrice divina, origine dei valori tradizionali di Roma in contrasto con l’avidità e smodatezza (avaritia e luxuria) del presente. Dall’altro lato, identifica nelle qualità di saper riconoscere la voluntas della Natura e di essere in sintonia con essa il motore del progresso tecnologico e, dunque, dei traguardi raggiunti da Roma sotto gli imperatori flavi.3

Rispetto al resto dell’enciclopedia, le sezioni su materiali, tecniche e prodotti d’arte, architettura e artigianato impongono la ricerca di un equilibrio assai più delicato tra queste due dimensioni, al fine di rendere conto dei successi della creatività umana, di necessità legati alla modifica dell’ordine e delle sostanze naturali. In particolare, un piccolo nucleo di materiali menzionati verso la conclusione del libro XXXVI, il penultimo dell’enciclopedia, offre un caso di studio utile ad approfondire queste considerazioni e indagare la posizione dell’ingegno umano nella trama narrativa e ideologica della Naturalis historia. La discussione dell’origine e degli usi del vetro e delle pietre trasparenti o riflettenti (lapis specularis, phengites e lapis obsiana) permette all’autore di approfondire tre concetti affrontati a più riprese lungo il trattato: il ruolo dell’uomo nel meccanismo dell’invenzione, il contributo dei sensi alla classificazione del mondo, il rapporto tra morale umana e norme della Natura.4 Seppure non contigui, questi passi sono collegati da una fitta rete di riferimenti reciproci e sembrano, insieme, articolare un discorso coerente a proposito del rapporto tra l’uomo e la Natura e, con esso, sul ruolo dell’enciclopedia stessa e di Roma.

1. Il contesto del libro XXXVI

Diversamente dalle trattazioni della scultura in bronzo e della pittura nei libri precedenti, organizzate in ampie sequenze cronologiche, la rassegna dedicata al marmo e alle pietre da costruzione segue un percorso quasi ‘periegetico’ nella contrapposizione tra i mirabilia di altre regioni e quelli di Roma. Sebbene gli studiosi abbiano talora attribuito tale differenza di passo a una presunta scarsezza di fonti per la scultura in marmo,5 sembra più probabile che la diversa strategia sia legata all’organizzazione e allo scopo del trattato.

Il resoconto pliniano si apre con una breve storia della scultura in marmo, che culmina con una densa sezione dedicata a Prassitele, un maestro già presentato a proposito della statuaria in bronzo ma in grado, nel marmo, di “superare anche sé stesso” (36.20: qui marmoris gloria superavit etiam semet). Plinio ricorda la presenza di opere di Prassitele ad Atene, superate (ante omnia) dalla sua statua di Afrodite, un signum in grado di rendere Cnido una celebre meta di visitatori.6 I paragrafi successivi affrontano le altre statue famose di Cnido (36.22), poi le opere di Prassitele e del figlio Cefisodoto esposte a Roma (36.23–24) e le statue di Scopa, del quale si sottolinea la fama pari a quella di Prassitele (36.25: laus cum his certat). Anche Scopa aveva scolpito un’immagine di Venere nuda, collocata nel tempio costruito da Bruto Callaico presso il Circo Flaminio, a detta di Plinio superiore alla creazione di Prassitele e in grado di rendere famosa qualsiasi altra città (36.26: Praxiteliam illam antecedens et quemcumque alium locum nobilitatura).7 Questa sezione è articolata intorno a una complessa rete di confronti – tra i lavori in bronzo e in marmo di Prassitele, tra le due statue prassiteliche di Afrodite, tra Prassitele e Scopa, tra il prestigio delle statue e quello dei luoghi che le ospitano, tra Atene e Cnido, tra Cnido e Roma. La sequenza comparativa introduce una vivida immagine della ‘folla di opere d’arte’ a Roma, una massa indistinta di arredi sullo sfondo dell’onerosa mole d’impegni che riempie le giornate di chi abita la città (36.27: Romae quidem multitudo operum et iam obliteratio ac magis officiorum negotiorumque acervi omnes a contemplatione tamen abducunt).8 Un paesaggio urbano tanto stratificato condanna all’anonimato un ampio novero di statue illustri, tra cui una terza immagine di Venere esposta nel Templum Pacis, degna di rivaleggiare con i capolavori degli antichi, e un gruppo di Niobidi nel tempio di Apollo Sosiano, realizzato a detta di Plinio proprio da Prassitele o da Scopa. Plinio prosegue ricordando un’impresa collettiva alla quale Scopa avrebbe partecipato, l’ornato del Mausoleo di Alicarnasso (36.30–31) – un complesso il cui valore (unito, implicitamente, all’assenza di opere altrettanto monumentali in quella località) sarebbe stato tale da garantire la memoria di ben quattro maestri, uniti in un’eterna competizione (hodieque certant manus). La sezione si conclude con un elenco delle collezioni e delle statue più celebri di Roma (36.33–43).

La porzione di testo dedicata alla scultura in marmo è costruita in maniera simile a quella, in un punto successivo (dopo paragrafi dedicati all’origine e diffusione a Roma dei rivestimenti litici, ai tipi di marmo e alla loro provenienza), in cui s’illustrano in esplicita contrapposizione i miracula del mondo (36.64–100) e quelli di Roma (36.101–125), principalmente opere ingegneristiche e architettoniche di eccezionale complessità.9 In uno dei passi più celebri dell’intera Naturalis historia, collocato tra le due liste, Plinio immagina gli edifici e monumenti di Roma come accumulati in una gigantesca pila (universitate vero acervata et in quendam unum cumulum coiecta), a creare una sorta di mondo alternativo, concentrato in un’unica città (quam si mundus alius quidam in uno loco).10

Nel suo insieme, il libro XXXVI è costruito attraverso un attento equilibrio tra le informazioni relative al resto del mondo e quelle raccolte a Roma. Dopo numerosi volumi dedicati alle molteplici manifestazioni della Natura, il lettore è condotto al luogo in cui tutte le risorse – tangibili e intellettuali – convergono, accumulate e compresse nel perimetro di una città e nella vita quotidiana dei suoi abitanti. Un tale spostamento della prospettiva trova giustificazione nell’economia dell’opera, che si avvia alla conclusione e che con il XXXVI libro termina la rassegna dei prodotti dell’ingegno umano. L’ultimo volume è infatti dedicato alle pietre preziose, sostanze di cui Plinio sottolinea l’origine naturale, indipendenti dalla creatività dell’uomo. All’uomo è data la facoltà di ammirare le gemme e desiderarne il possesso, di sviluppare tecniche per contraffarle, per smascherare le falsificazioni e per esaltarne le proprietà cromatiche e luminose.11 Diversamente dagli oggetti d’oreficeria, dalle statue in metallo e in pietra, dai dipinti, dalla coroplastica e dai monumenti architettonici, le gemme non sono prodotti dell’uomo, bensì catalizzatori e stimoli di curiosità, desiderio, cupidigia.

2. Inclusa luce: l’etica delle pietre luminose (36.160–163)

Al termine dei paragrafi dedicati ai miracula del mondo, la menzione delle sfide ingegneristiche poste dalla messa in opera degli elementi del Tempio di Artemide a Efeso sollecita il ricordo di un altro edificio sacro, a Cizico, i cui blocchi sarebbero apparsi congiunti in maniera portentosa (36.98). L’architetto del delubrum ciziceno avrebbe raggiunto una inedita sintonia tra materia e ingenium, garantendo alla cella una calda illuminazione grazie a sottili intercapedini in oro tra le pietre delle pareti.

La notizia relativa al tempio luminoso di Cizico s’inquadra in un più ampio discorso sulla gerarchia di materiali e tecniche e, in particolare, sulla posizione dell’oro nel progetto naturale. Plinio sembra mettere in discussione la preminenza dell’oro nelle gerarchie umane, ricordando come tale metallo sia considerato misura del valore di ogni altra sostanza in virtù della sua stabilità e non già dell’eccellenza in fatto di brillantezza, peso o malleabilità (33.58–60).12 La doratura risulta una pratica legittima solo in ambito religioso (33.57; 61), mentre in ogni altra sfera (33.49; 57; 34.63; 35.2; 36.26) è rubricata senza esitazione tra le tecniche artigianali fraudolente, alla stregua dell’impiallacciatura lignea e della pittura di finti marmi.13 Nascosta dall’oro (36.26: auro occultatus), la superficie di un’opera perde i propri valori plastici e cromatici, a favore della mera ostentazione del pregio economico.14 Al contrario, nel sacello di Cizico l’oro sarebbe rimasto celato (ipsa materia ingenii quamvis occulta), semplice strumento per valorizzare le qualità fisiche di altre e meno pregiate sostanze.

La descrizione del delubrum di Cizico, inserita in una porzione di testo funzionale a introdurre i miracula di Roma, costituisce uno dei rari casi in cui Plinio si sofferma sull’aspetto di un ambiente interno, indugiando sulla luce e il riflesso da essa prodotto sugli arredi.15 Il passo sembra anticipare la trattazione del lapis specularis e della pietra phengites, più avanti nel medesimo libro (36.160–163). A proposito del lapis specularis, Plinio cita i possibili formati d’uso (come lastre sagomate, oppure come lucide scaglie con cui cospargere ampie superfici), la provenienza, le tecniche d’estrazione e il processo di formazione, che si riteneva analogo a quello del cristallo di rocca, come congelamento di una sostanza liquida (36.161: crystalli modo glaciari et in lapidem concrescere).16 La più concisa menzione della pietra phengites, invece, ne precisa aspetto e consistenza: un materiale solido come il marmo, candido e trasparente (36.163: lapis duritia marmoris, candidus atque translucens). Si tratta, secondo Plinio, di una pietra scoperta recentemente in Cappadocia, sotto il principato di Nerone. Non solo l’introduzione, ma anche il più celebre uso della phengites è legato a questo imperatore, nel rifacimento del Tempio di Fortuna incorporato nella Domus Aurea.17 Grazie alla phengites, nell’edificio si sarebbe diffusa una claritas diurna anche con le porte sbarrate. Plinio, tuttavia, sottolinea una fondamentale differenza tra lapis specularis e phengites: mentre la prima pietra sarebbe stata in grado d’irradiare la luce che la attraversava, la seconda l’avrebbe imprigionata, impedendole di disperdersi (inclusa luce, non transmissa). In un caso, dunque, la qualità dell’ambiente è legata alla trasmissione della luce, nell’altro al suo imprigionamento.

Attraverso il cenno al tempio in phengites, Plinio sembra aggiungere un tassello a un discorso che innerva l’intera Naturalis historia e, in particolare, le sezioni dedicate ai materiali delle arti figurative e dell’architettura: il rapporto tra l’erosione dei valori ancestrali di Roma e la trasgressione nello sfruttamento di tecniche e sostanze. In particolare, grazie a episodi di fraintendimento del corretto uso dei materiali Plinio costruisce il carattere di personaggi del recente passato di Roma – a partire da Tiberio, Caligola e Nerone – in termini esplicitamente negativi.18 A Nerone è attribuita la criminosa decisione di far dorare uno squisito bronzo di Lisippo, incrementandone il pretium economico a detrimento della gratia artis, cioè del modellato e dei suoi valori plastici (34.63).19 Nel volume conclusivo dell’enciclopedia, Plinio si sofferma sull’ultimo gesto violento dello stesso imperatore allorché Nerone, vedendo avvicinarsi la propria inevitabile fine, avrebbe scagliato al suolo due pregiate coppe in cristallo di rocca, ben sapendo come tale pietra non consentisse riparazioni (37.29: fragmenta sarciri nullo modo queunt), al solo, egoistico, scopo di privare la posterità di quei beni (haec fuit ultio saeculum suum punientis, ne quis alius iis biberet).20 Plinio costruisce l’immagine di una sintonia tra l’uomo e la sua epoca, attribuendo al principato di Nerone mostruose invenzioni quali l’uso del guscio di tartaruga a imitazione del legno per lavori d’impiallacciatura (16.233) o ancora la pratica di alterare l’aspetto delle lastre utilizzate nei rivestimenti marmorei, rendendo di fatto irriconoscibili le pietre cavate in natura (35.3).

In questo quadro, la Domus Aurea è ritratta come un luogo dominato dal sovvertimento delle gerarchie naturali nella topografia e funzione di luoghi e attività. Come i ritratti colossali di Nerone in bronzo (34.46)21 e in pittura (35.51), così anche la sua Domus Aurea è un’opera di arrogante gigantismo, le cui sale da soggiorno (sellaria) superano l’estensione dei campi coltivati dai laboriosi progenitori di Roma (36.111).22 Nell’immagine del palazzo evocata nella Naturalis historia è implicito un duplice contrasto: da un lato tra una dimora d’otium (la cui sede appropriata è il suburbio o la campagna) e la città, luogo del negotium, dall’altro lato tra la dimensione ricreativa della vita in villa e il duro lavoro agricolo degli antichi abitanti di Roma. Svetonio presenta la Domus Aurea come un complesso tanto vasto e articolato da presentarsi con la fisionomia di un paesaggio assieme rurale e urbano, in cui si alternano nuclei architettonici a imitazione di insediamenti (ad urbium speciem) e tratti di aperta campagna (Nero 31).23 Nella Naturalis historia, la città è il luogo in cui il ‘cumulo’ di impegni e incombenze (officiorum negotiorumque acervi) impedisce di prestare attenzione alla multitudo degli arredi d’arte – dove, dunque, il contenuto delle attività determina il modo di fruizione del paesaggio e l’obliteratio di certi monumenti è legata all’impossibilità di un apprezzamento analitico. Di contro, la Domus Aurea sembra esistere solo in virtù della propria dimensione decorativa, come un contenitore di opere d’arte privo di ogni altra funzione. Lo sterminato complesso cinge la città, soffocandola con la propria mole (36.111). Al suo interno, come in un carcer, languiscono innumerevoli opere e arredi pregiati (34.84), oltre all’ars stessa del decoratore favorito da Nerone (35.120).24 Al medesimo destino sembra essere andato incontro l’antico tempio di Fortuna, inglobato nel palazzo dell’imperatore (36.163: amplexus aurea domo). La scelta del materiale usato per la ricostruzione dell’edificio, la phengites, è in linea con la natura predatoria dell’intervento e del suo committente, di cui condivide il comportamento grazie alla capacità di ‘imprigionare’ la luce al proprio interno. L’appropriazione da parte di Nerone del tempio è un esempio dell’appetito smodato di quell’imperatore e della sua casa. Allo stesso modo, nel restauro neroniano, la luce rimane prigioniera all’interno della pietra e nella cella del tempio. Alla luce di tali osservazioni, è evidente come il passo dedicato alla phengites contribuisca, al di là della dimensione aneddotica, allo sviluppo di un più ampio discorso a proposito della storia recente di Roma e della dimensione morale del rapporto tra uomo e materia.

3. Ingeniosa sollertia: le invenzioni del vetro (36.190–195)

Secondo Plinio la ‘pietra riflettente’ (lapis specularis) e la cosiddetta phengites, pur consentendo effetti ambientali analoghi, differiscono nei meccanismi di trasmissione della luce nonché, forse, nell’uso e nei modi di formazione. A differenza della phengites, dura come il marmo (36.163: duritia marmoris), il lapis specularis si distingue per l’eccezionale mollitia (36.162), che permette di ricavarne lastre molto sottili (36.160: tenues crustas). Se le pietre trasparenti o riflettenti sono, collettivamente, paragonate al vetro (36.162: vitri modo), le analogie tra lapis specularis e vetro si estendono alle affinità rispetto a un terzo materiale, il cristallo di rocca, menzionato nella sezione di apertura del trentasettesimo libro ed esemplificativo delle proprietà delle gemme. Come il cristallo, il lapis specularis sarebbe frutto dell’azione del gelo, un liquido solidificato nelle viscere della terra (36.161; 37.23). Proprio in virtù della sua causa, il cristallo non tollererebbe il calore, prestandosi all’uso come contenitore di sole bevande fredde (37.26; 30); di contro il lapis specularis condividerebbe la robustezza propria delle pietre e sopporterebbe parimenti l’esposizione al caldo e al freddo (36.162). La somiglianza tra cristallo e vetro giustifica lo sfruttamento di quest’ultimo materiale per falsificare il pregiato vasellame in cristallo (37.29).25

Nella trama del trentaseiesimo libro pliniano, la lunga discussione dedicata alla genesi e alle caratteristiche del vetro (vitri natura) segue le sezioni sulla scultura in marmo, sulle meraviglie architettoniche del mondo e di Roma, sulle tecniche edilizie. Il discorso è introdotto da un paragrafo sull’evoluzione del mosaico in pasta vitrea, il cui impiego si sarebbe esteso dai rivestimenti pavimentali alle pareti e alle volte dei soffitti (36.189). La scelta di collocare il vetro in questo punto della trattazione, tuttavia, sembra rispondere a una più ampia strategia compositiva. La discussione del vetro, infatti, permette di introdurre temi (le qualità di luce e riflesso) dominanti nel volume successivo, fornendo un quadro ricco e articolato a proposito di un materiale destinato a trovare ampio spazio nel resoconto sulle gemme, sia come termine di paragone per la loro trasparenza, sia in virtù del suo uso nelle falsificazioni.26

Dando per scontato che i lettori ben conoscano le caratteristiche e gli impieghi principali del vetro, Plinio muove subito a un aspetto che ritiene più rilevante nell’economia dell’opera, l’origine di questa sostanza. Secondo la leggenda, il vetro sarebbe un prodotto del caso, il risultato del mescolarsi di sostanze minerali alla fiamma di un calderone (36.191). L’aneddoto presenta forti somiglianze rispetto alla storia relativa alle origini di un altro materiale, il celebre bronzo corinzio, anch’esso risultato dell’imprevedibile potere del fuoco e dell’azione del caso (34.6: hoc casus miscuit).27 In un punto assai precedente del trattato, nel libro ventisettesimo sulle erbe officinali, Plinio inquadra in maniera più precisa i concetti di casus e fortuna, tra loro sostanzialmente sinonimi, in relazione all’agente creatore della natura (27.1). Sebbene entrambe queste forze trascendano le possibilità di comprensione umana, il caso è una funzione, un’espressione diretta della Natura, il cui disegno razionale si cela dietro il risultato di un errore o l’esito inatteso di un’azione con obiettivi del tutto diversi.

Nei libri dedicati alle arti figurative si dipana una fitta trama di aneddoti sul ruolo di circostanze impreviste, che sembrano occupare una posizione importante nel discorso pliniano sul rapporto tra la volontà della Natura e la creatività umana.28 La celebre leggenda dell’imago di un Sileno scaturita da un blocco di marmo pario intaccato dagli scalpellini, ben nota da altre fonti, svolge una funzione importante nella trama del volume trentaseiesimo (36.14).29 Dopo alcuni paragrafi a proposito dei più antichi esempi di scultura in marmo, la presentazione prosegue con la menzione del materiale prediletto dagli antichi maestri, il marmo di Paro, cavato in cunicoli alla luce fioca delle lucerne e protagonista della prodigiosa apparizione. È l’occasione, per Plinio, di ricordare al lettore l’origine veneranda della scultura in marmo, puntualizzando come hanc artem tanto vetustiorem fuisse quam picturam aut statuariam (36.15). L’insistenza sull’intimo rapporto tra la volontà creatrice della natura e il marmo, una sostanza cavata dalle profondità della terra, contribuisce alla presentazione di una forma d’arte primigenia, dipendente solo in parte dall’abilità degli artigiani.30 La scelta di ricordare la statua miracolosa di un Sileno non è funzionale a costruire una sequenza neutra degli eventi, né al desiderio di includere un popolare aneddoto. In una sezione del testo che si conclude con la folla delle sculture di Roma e con gli ostacoli che una tale massa di capolavori pone alla memoria dell’uomo, l’enciclopedista sembra piuttosto organizzare un percorso attraverso secoli di progresso artistico e tecnologico, dalle viscere della Natura stessa al paesaggio urbano di Roma.

Il vetro, dunque, anticipa la caratteristica principale delle gemme discusse nel libro conclusivo dell’enciclopedia, prodotti puri e inviolati della Natura. Il contributo dell’ingeniosa sollertia umana è limitato, nel resoconto pliniano, alla scoperta di nuove fonti di approvvigionamento per gli ingredienti, allo sviluppo di ricette e metodi produttivi più efficienti (36.192–195). La presentazione del vetro si conclude con un altro aneddoto assai noto, a proposito di una straordinaria scoperta che si riteneva avvenuta sotto Tiberio: la tecnologia del vetro flessibile e, dunque, infrangibile (36.195).31 La perdita di questo materiale prodigioso sarebbe legata al timore di un crollo del prezzo dei metalli che, dunque, ne avrebbe imposto la distruzione (totam officinam artificis eius abolitam, ne aeris, argenti, auri metallis pretia detraherentur). L’episodio trova spazio, in una forma semplificata, anche nell’opera storica di Cassio Dione (57.21), dov’è narrato come una sorta di gioco di prestigio di un artigiano desideroso d’impressionare l’imperatore, uomo d’indole permalosa e crudele.32 In questo racconto, che contribuisce a un’immagine del carattere di Tiberio come exemplum morale negativo, l’obiettivo dell’imperatore non sembra essere quello di evitare alterazioni nel mercato delle materie prime, quanto piuttosto eliminare un avversario sgradito. È più simile al testo dell’enciclopedia la versione contenuta nella Cena Trimalchionis (Sat. 51). Come nella versione pliniana, l’ostilità è legata al timore di un’alterazione negli equilibri di mercato (quia enim, si scitum esset, aurum pro luto haberemus). Se tuttavia l’aneddoto petroniano si conclude con la condanna alla decapitazione del faber, Plinio fornisce un resoconto più sobrio del leggendario evento e menziona solo la distruzione dell’officina dove il materiale sarebbe stato inventato. Petronio scredita implicitamente l’attendibilità della storia attribuendola a Trimalchione, il narratore inaffidabile per eccellenza, mentre Plinio, in linea con gli obiettivi di rigore del trattato, aggiunge come la popolarità di questa leggenda sia superiore rispetto alla sua credibilità. Ritenendo la storia priva di fondamento, Plinio ne propone una versione meno drammatica, concentrandosi sull’invenzione e sul contesto artigiano in cui essa sarebbe stata creata. La scelta d’includere un fatto di dubbia veridicità dipende, probabilmente, dalla fama dell’aneddoto stesso oltre che dal desiderio di approfondire il discorso sull’ingegno umano e l’uso del vetro per imitare le proprietà di altri materiali. Alla menzione del leggendario vetro flexilis segue infatti una novità ben più vicina a Plinio nel tempo e concretamente verificabile: vasellame in vetro a imitazione dei prodotti in cristallo di rocca. Come altre scoperte inutili o dannose, questi ‘vasi di pietra’ (petrotoi) sarebbero stati inventati durante il regno di Nerone, un’epoca in cui il nesso etico tra innovazione e utilità sarebbe stato sostituito dall’appetito per stravaganza e dissolutezza.

4. Pro imagines umbras reddere: il riflesso dell’ossidiana

Plinio inserisce nella categoria dei vetri (in genere vitri) anche l’ossidiana, che descrive in brevi tratti: dal colore molto scuro, talora lucida, ma più fosca del vetro (36.196: nigerrimi coloris, aliquando et tralucidi, crassiore visu).33 Come il vetro, questo materiale svolge una funzione di raccordo rispetto all’ultimo volume dell’enciclopedia. L’ossidiana è collocata in questo punto del testo sulla base delle sue analogie rispetto al vetro, a sua volta legato in una trama di somiglianze e differenze al cristallo di rocca, descritto in apertura del trentasettesimo libro. Il fatto, tuttavia, che l’ossidiana possa catalogarsi tra le pietre semi-preziose giustifica la sua inclusione anche tra le gemme, in un punto molto successivo del testo (37.177). L’esperienza dei sensi è centrale nella discussione dell’ossidiana, di cui si sottolinea l’uso per la produzione di specchi fissati alle pareti. Al contrario dei veri specchi, che nel mondo romano venivano realizzati in argento accuratamente lucidato (33.128–130), gli specula in ossidiana sarebbero stati in grado di riflettere solo “ombre e non immagini” (pro imagine umbras reddente).

Insieme ai testi dedicati all’atmosfera del delubrum ciziceno, al lapis specularis e alla phengites, la presentazione dell’ossidiana appartiene a un nucleo di passi che, lungo il trentaseiesimo libro, esplorano le qualità ottiche della pietra, introducendo così i contenuti e la struttura del volume conclusivo.34 In assenza di categorie tassonomiche oggettive, come quelle della moderna petrografia e cristallografia, i sensi e la percezione delle caratteristiche fisiche dei materiali costituiscono i soli strumenti per rendere conto di sostanze che eludono ogni sforzo razionale e delle quali la maggior parte dei lettori doveva avere limitatissima conoscenza. Il ventaglio di espressioni adottate per descrivere le qualità di colore, trasparenza, limpidezza, brillantezza si arricchisce progressivamente lungo la Naturalis historia, fino a culminare negli ultimi due libri, dove la superficie diviene prima oggetto di espliciti commenti e poi vero criterio organizzatore.

La natura ambigua degli specchi realizzati in pietre riflettenti e l’inaffidabilità delle immagini che esse producono sono al centro di un passo della Vita svetoniana di Domiziano che costituisce, insieme al luogo della Naturalis historia dedicato al tempio di Fortuna inglobato nella Domus Aurea, l’unica altra attestazione della pietra phengites (Dom. 14.4).35 Temendo attentati alla propria vita, l’imperatore avrebbe fatto rivestire le pareti del portico in cui aveva l’abitudine di passeggiare in lapis phengites, così da controllare, grazie al riflesso della pietra, ciò che avveniva alle sue spalle (e cuius splendore per imagines quidquid a tergo fieret provideret). La posizione dell’aneddoto, in una serrata climax di sospetti, angoscia e violenze lungo gli ultimi mesi della vita di Domiziano, suggerisce che le lastre in phengites, lungi dallo svolgere la funzione di specchi fedeli della realtà, contribuissero piuttosto ad alimentare le ossessioni e il tormento interiore dell’imperatore. Sia nell’enciclopedia pliniana, sia nella biografia svetoniana la phengites, una pietra ‘avida’ di luce, è associata alla costruzione dello spazio privato di due imperatori ai quali si attribuisce un comportamento discutibile e il cui carattere trova espressione diretta nelle scelte architettoniche e decorative.

L’interesse per gli specchi neri, in una trama di confronti ottici e tattili rispetto ad altre materie, è saldamente documentato nella documentazione archeologica di età flavia.36 Le abitazioni di Pompei allestite in Quarto Stile hanno restituito quattro lastre nere fissate alle pareti di peristili o cortili, entro campi monocromi neri o in prossimità dell’ingresso a stanze dalle pareti dipinte di nero.37 L’attenzione per le analogie e differenze in colore e brillantezza tra materiali diversi è particolarmente vistosa nella domus detta degli Amorini Dorati (VI 16, 7.38), dove uno specchio nero dalla sagoma romboidale e un frammento irregolare nella stessa sostanza emergono dalle pareti nere del peristilio (Fig. 1).38 L’allestimento del biclinio, aperto sul braccio nord del portico stesso, da cui l’edificio ha tratto il proprio nome convenzionale, illumina il senso di questa scelta decorativa. Sulle pareti, affrescate con un motivo a tappezzeria su un uniforme fondo giallo, brillava la superficie metallica di quattro medaglioni dorati con amorini in volo.39 In entrambi i casi, le appliques invitano al confronto con la parete e alla riflessione circa le proprietà riflettenti di materie diverse, in spazi progettati per usi differenti (la circolazione e la sosta) e diversamente colpiti dalla luce naturale.40

Fig. 1. Pompei, Casa degli Amorini Dorati (VI 16, 7.38), specchio in vetro nero applicato alla parete nera del peristilio.

Recenti analisi strumentali hanno rivelato come nessuno dei quattro specchi neri di Pompei sia realizzato in ossidiana, cioè in un materiale vetroso naturale, ma si tratti in tutti i casi di lastre di vetro artificiale nero.41 Plinio mostra di conoscere l’esistenza di prodotti in vetro artificiale a imitazione dell’ossidiana, un materiale a suo dire diffuso soprattutto per vasellame da mensa (36.198: ad escaria vasa).42 La fortuna di tali imitazioni dipenderebbe dalla peculiare natura del vetro, un materiale straordinariamente duttile, adatto a essere colorato (neque est alia nunc sequacior materia aut etiam picturae accommodatior) e in grado di assumere l’aspetto non solo dell’ossidiana, ma anche di numerose altre pietre menzionate lungo l’intero libro trentasettesimo.

5. Conclusioni

Conclusa la discussione di vetro e ossidiana, il trentaseiesimo libro della Naturalis historia si chiude con una sostanza, il fuoco, che occupa una posizione intermedia tra tutti gli altri materiali e la Natura stessa (36.200–204). Se, fino a quel punto, Plinio ha illustrato i risultati raggiunti “dall’ingegno che, grazie all’arte, riproduce la natura”, il fuoco sfuma la distinzione tra produttore e prodotto (36.200: peractis omnibus, quae constant ingenio arte naturam faciente, succurrit mirari nihil paene non igni perfici). Da questo punto in avanti, fino alla conclusione del trattato, il ruolo dell’ingegno umano passa in secondo piano, limitato alla falsificazione delle gemme. L’azione del fuoco, una inmensa, inproba rerum naturae portio (36.201), rivela il ruolo della Natura come principio morale, in grado di reagire a prodotti o comportamenti umani che ne violino il volere o il principio di utilità: può distruggere capolavori d’ostentazione come, per esempio, un ritratto colossale dipinto di Nerone (35.51) o le residenze di proprietari troppo ambiziosi (36.110; 115). A rafforzare il legame tra la Natura, il suo strumento creativo e le gerarchie morali e storiche che l’ordine naturale presuppone è il paragrafo conclusivo del volume, che riconduce il lettore, dopo lunghe digressioni dedicate a meraviglie d’arte e architettura, all’intimità del focolare e alla tradizione di Roma, ricordando la miracolosa fiamma che si sarebbe accesa nella casa di Tarquinio Prisco, ad annunciare la nascita di Servio Tullio.

Gli ultimi due volumi dell’enciclopedia formano un nucleo coerente dal punto di vista tematico, giacché entrambi sono dedicati alle pietre, seppure di diverse dimensioni, aspetto, pregio e facilità di reperimento. L’organizzazione interna, tuttavia, è assai diversa.43 Il trentaseiesimo libro su marmi e pietre da costruzione è strutturato in una serrata trama di sezioni tematiche, in cui vengono ripresi argomenti importanti nella struttura ideologica dell’enciclopedia e attraverso le quali si anticipano i nodi essenziali dell’ultimo volume sulle gemme (le facoltà creative della Natura e il suo ordine inviolabile, la centralità dei sensi e delle superfici nella classificazione dei prodotti di Natura). Le ultime sostanze discusse nel volume permettono a Plinio di chiarire e sottolineare questi punti (Fig. 2). Il vetro offre l’opportunità di riflettere sull’esito di un processo collaborativo tra la Natura, creatrice della miscela, e gli artigiani umani, impegnati nello sviluppo di tecniche sempre più raffinate. La descrizione dell’ossidiana impone il ricorso a criteri legati alla percezione sensoriale e al paragone esplicito o implicito rispetto ad altre materie (il vetro e l’argento), secondo una formula ampiamente sfruttata a proposito delle gemme, classificate sulla base di colore, limpidezza, luminosità, trasparenza nel confronto con altre pietre o diverse parti del mondo naturale, tra cui piante, acqua, aria, sangue, pelliccia e squame di animali, ossa e olio. Il fuoco, infine, sfugge alle dinamiche della creazione e garantisce il rispetto di norme naturali basate su semplicità e utilità. Se il vetro è la materia più usata per la contraffazione di pietre preziose, il fuoco costituisce lo strumento principale per ripristinare l’ordine della Natura.

L’ultimo libro dell’enciclopedia è invece composto in larga misura da una lunga lista di gemme ordinate secondo il colore, il processo di formazione o le proprietà. Alcune pietre, come i cristalli di rocca e gli smeraldi, sono oggetto di approfondimento, ma non sembra possibile distinguere vere unità tematiche a esclusione dei paragrafi introduttivi in cui si menzionano le più celebri gemme dell’antichità e le dattiloteche di Roma (37.2–20). In questo volume, dedicato a prodotti perfetti di Natura, che esistono fuori dal tempo e dalle vicende umane, Plinio abbandona strategie di narrazione storica o periegetica.44 Solo nella sezione conclusiva (37.201–204), in cui si accommiata dalla parens rerum omnium Natura, Plinio torna al luogo verso cui convergono tutte le risorse di Natura, l’Italia, per enumerare le creature e sostanze più preziose.

Fig. 2. Schema delle relazioni tra i materiali menzionati nella sezione conclusiva del Libro XXXVI e nella prima parte del Libro XXXVII della Naturalis historia di Plinio il Vecchio.

In linea con le prospettive dello stoicismo ellenistico e romano, la Natura pliniana è una forza attiva che pervade la materia secondo un disegno impenetrabile alla mente umana ma razionale.45 La conoscenza e la creazione fanno parte di un processo di rivelazione e apprendimento in cui si dispiegano le proprietà della Natura. Nei primi paragrafi del libro ventisettesimo sulle erbe medicinali Plinio spiega come anche quando un’innovazione sembri risultato del lavoro di un certo individuo, il vero responsabile di tale progresso sia in realtà la benevolenza della Natura (27.1: rerum naturae ipsius munificentia). L’enigma della creazione risiede dunque nell’ineffabile capacità di entrare in sintonia con il potere generativo della Natura e la sua voluntas (37.60: nec quaerenda ratio in ulla parte naturae, sed voluntas). Le infinite manifestazioni della Natura costituiscono, insieme, un oggetto di contemplazione e uno strumento per l’apprendimento.46 Nella visione storica pliniana, Roma compie il proprio destino accumulando risorse e conoscenza nel corso della sua espansione, mentre l’enciclopedia stessa contribuisce al progetto della Natura organizzando tali informazioni e mettendole a disposizione di un vasto pubblico.47

L’osservazione dei modi in cui questi discorsi si intrecciano rivela i limiti dei metodi tradizionali per lo studio dell’enciclopedia.48 Né l’analisi delle sequenze tematiche entro singole sezioni, né l’indagine di determinati concetti attraverso l’intera Naturalis historia permettono di rendere conto delle strutture e dei processi cognitivi alla radice del testo. Del pari, non sembra efficace la scelta di isolare differenti categorie narrative, distinguendo i passi a carattere aneddotico da quelli che contengono dati e notizie.49 La funzione stessa dell’enciclopedia, che ambisce a fornire un serbatoio di conoscenze e favorirne la memoria, impone di esaminare non solo la fisionomia del testo o le premesse ideologiche del suo autore, ma anche e soprattutto le forme dell’interazione tra queste due sfere. Lo sforzo di organizzare una mole immensa di materiale impone, infatti, l’esame delle relazioni tra fatti, oggetti ed esseri viventi, al fine di identificare le somiglianze e le differenze che determinano specifiche categorie, o gruppi di oggetti caratterizzati da un elemento comune. A un livello sovraordinato, la sequenza delle categorie compone più ampi sistemi tassonomici. La possibilità che un certo oggetto appartenga a più di una categoria o che una categoria possa contribuire a molteplici sistemi tassonomici permette l’avanzamento della narrazione, che dunque segue una duplice traiettoria di relazioni verticali e orizzontali. L’orizzonte culturale e il punto di vista dell’autore guidano questo processo di apprendimento, raccolta, inclusione ed esclusione, del quale le sequenze logiche della Naturalis historia sono il risultato.


1 Le idee sviluppate in questo contributo sono state presentate in occasione dell’incontro di studi Memoria scientiae. Il futuro nella scienza antica, organizzato nel febbraio 2023 dal Liceo Scientifico “S. Cannizzaro” e dal Dipartimento di Scienze Umanistiche dell’Università di Palermo. Ringrazio gli organizzatori e i partecipanti al seminario, i cui contributi e commenti hanno indicato utili prospettive ai fini della comprensione del testo pliniano.

Per la fortuna dell’enciclopedia pliniana e dei ‘libri sulle arti’ si vedano: Aude Doody, Pliny’s Encyclopedia. The Reception of the Natural History (Cambridge: Cambridge University Press, 2010); Sarah Blake McHam, Pliny and the Artistic Culture of the Italian Renaissance (New Haven: Yale University Press, 2013); Peter Fane Saunders, Pliny the Elder and the Emergence of Renaissance Architecture (Cambridge: Cambridge University Press, 2016).

2 Per un’introduzione alle sezioni della Naturalis historia dedicate alle arti figurative si rimanda a Jacob Isager, Pliny on Art and Society (Odense: Odense University Press, 1991); Valérie Naas, Le projet encyclopédique de Pline l’Ancien (Rome: Éditions de l’École française de Rome, 2002); Sorcha Carey, Pliny’s Catalogue of Culture: Art and Empire in the Natural History (Oxford: Oxford University Press, 2003); Anna Anguissola, Pliny the Elder and the Matter of Memory. An Encyclopaedic Workshop (London-New York: Routledge, 2021). Si vedano anche i saggi raccolti in Pliny the Elder: Themes and Contexts, ed. Roy K. Gibson, Ruth Morello (Leiden-Boston: Brill, 2011) e in The Nature of Art. Pliny the Elder on Materials, ed. Anna Anguissola, Andreas Grüner (Turnhout: Brepols, 2021).

3 Thomas R. Laehn, Pliny’s Defense of Empire (London-New York: Routledge, 2013), 57–90 esamina l’impresa enciclopedica di Plinio alla luce delle sue premesse ideologiche. A questo proposito si vedano anche Naas, Le projet encyclopédique, 86–91; Trevor Morgan Murphy, Pliny the Elder’s Natural History. The Empire in the Encyclopedia (Oxford-New York: Oxford University Press, 2004); Doody, Pliny’s Encyclopedia, 40–91. Il significato della luxuria nella prospettiva morale della Naturalis historia è discusso da Eugenia Lao, “Luxury and the Creation of a Good Consumer”, in Pliny the Elder, 35–56 e da Andrew Wallace Hadrill, “Pliny the Elder and Man’s Unnatural History”, Greece & Rome 37 (1990): 80–96.

4 Alcuni dei punti discussi di seguito sono stati introdotti, in forma sintetica, in Anna Anguissola, “Plinio il Vecchio e le pareti trasparenti. Una nota a Naturalis Historia 36.98”, Studi Classici e Orientali 67 (2021): 499–508. Si veda anche Anguissola, The Matter of Memory, 15, 64–65.

5 L’Index auctorum di Plinio comprende numerosi trattati de pictura e de toreutice, mentre sembrano mancare risorse analoghe per il marmo. Salvatore Settis, Laocoonte. Fama e stile (Roma: Donzelli, 1999), 41–42, 44, suggerisce come l’indisponibilità di fonti adeguate possa aver incoraggiato lo sviluppo di nuove strategie per la presentazione del materiale.

6 A sua volta, l’Afrodite di Cnido avrebbe superato, nelle innovazioni iconografiche e nella fama, la statua dello stesso soggetto scolpita da Prassitele per Coo (36.20).

7 Si cela in questo passo un primo, sottile nesso tra il progressivo accumulo comparativo di opere l’una più pregiata o famosa dell’altra, in grado di rendere celebre qualsiasi luogo diverso (alium locum) da Roma e l’impressionante immagine di Roma stessa come un singolo luogo (36.101: uno loco) in grado di raccogliere le meraviglie come di un mondo alternativo (mundus alius).

8 Per il significato di acervus e del verbo acervo, le cui uniche due occorrenze nei ‘libri sulle arti’ della Naturalis historia compaiono a proposito del cumulo di impegni (36.27: officiorum negotiorumque acervi) e di oggetti d’arte (36.101: universitate vero acervata) che scandiscono la vita nella città di Roma, si veda Anguissola, The Matter of Memory, 99 nota 5. In un passo del trentaquattresimo libro (34.35), Plinio menziona l’immenso numero di sculture in bronzo come la ragione che gli avrebbe impedito di trattare in maniera completa il soggetto.

9 Sul ruolo dei mirabilia nell’enciclopedia pliniana esiste una vasta bibliografia; si vedano almeno: Mary Beagon, “Plinio, la tradizione enciclopedica e i mirabilia”, in Storia della scienza, I (Roma: Istituto della Enciclopedia Italiana, 2001), 735–745; Ead., “Situating Nature’s Wonders in Pliny’s Natural History”, in Vita vigilia est. Essays in Honour of Barbara Levick, ed. Edward Bispham, Greg Rowe (London: Institute of Classical Studies, 2007), 19–40; Valérie Naas, “Et in his quidem, tametsi mirabilis, aliqua ratio (NH, IX, 178): modes de construction du savoir et imaginaires de Pline l’Ancien”, in Imaginaire et modes de construction du savoir antique dans les textes scientifiques et techniques, ed. Mireille Courrent, Joël Thomas (Perpignan: Presses Universitaires de Perpignan, 2001), 15–33; Ead., Le projet encyclopédique, 244–292, 297–310, 317–321; Ead., “Opera mirabilia in terris et Romae operum miracula dans l’Histoire naturelle de Pline l’Ancien”, in Mirabilia. Conceptions et Répresentations de l’extraordinaire dans le monde antique, ed. Philippe Mudry, Olivier Bianchi, Olivier Thévenaz (Bern: Peter Lang, 2004), 253–264; Ead., “Imperialism, Mirabilia and Knowledge. Some Paradoxes in the Naturalis Historia”, in Pliny the Elder, 57–70; Carey, Pliny’s Catalogue of Culture, 84–99; Philippe Mudry, “Mirabilia et Magica. Essai de definition dans l’Histoire Naturelle”, in Mirabilia, 239–252.

10 Per un commento a questo passo, con bibliografia precedente, si rimanda ad Anguissola, The Matter of Memory, 89–90; si veda anche Carey, Pliny’s Catalogue of Culture, 45–46. Plinio menziona la ‘concentrazione’ del paesaggio urbano di Roma anche in Naturalis historia 3.67, a proposito della densità e dell’elevazione degli edifici della città; nello stesso libro (3.39–40) si riferisce all’Italia come alla terra omnium terrarum alumna eadem et parens e, in particolare, alla costa della Campania come al luogo in cui la Natura avrebbe concentrato i propri sforzi.

11 A questi temi è stato dedicato un convegno di studi tenutosi presso l’Università di Pisa nel giugno 2023, frutto di un partenariato tra il Sistema Museale di Ateneo pisano e l’Antikenmuseum dell’Universität Leipzig, con il sostegno della Fritz Thyssen Stiftung (“A Natural History of Gems. Context and Materials of Pliny the Elder’s Book 37”, organizzato da Anna Anguissola, Chiara Ballestrazzi e Jörn Lang).

12 Sui problemi posti dall’oro e dalla doratura alle gerarchie dei materiali di Natura si vedano Anguissola, The Matter of Memory, 6–7, 33–38; Ead., “Ethical Matters. Pliny the Elder on Material Deception”, in Materiality in Roman Art and Architecture. Aesthetics, Semantics and Function, ed. Annette Haug, Adrian Hielscher, Michael Taylor Lauritsen (Berlin-New York: Walter de Gruyter, 2022), 39–50; Anna Anguissola, Lucia Faedo, “Lo sguardo di Plinio tra tecnica e materia: le statue e la loro superficie”, in Le voci del marmo. Materiali per un lessico tecnico della scultura in marmo, a cura di Marco Collareta, Massimo Ferretti, Sonia Maffei, Cinzia Maria Sicca (Pisa: Edizioni della Normale, 2022), 109–138.

13 La critica dei rivestimenti è in linea con l’ostilitià pliniana verso i composti, la cui elaborazione contraddice le norme della semplicità naturale. In particolare nella sfera dei profumi (per esempio XXIV, 4–5) la corruzione di abitudini e gusti avrebbe condotto alla predilezione verso compositiones et mixturae inexplicabiles). Si veda Gianpiero Rosati, “Profumo di terra: valori e simboli dell’immaginario romano”, in Profumi d’Arabia, a cura di Alessandra Avanzini (Roma: L’Erma di Bretschneider, 1997), 515–528.

14 Si vedano in particolare le osservazioni di Lucia Faedo in “Lo sguardo di Plinio”, 116–119.

15 Per una discussione del passo relativo al sacello ciziceno si veda Naas, Le projet encyclopédique, 370–371. Sebbene questo aneddoto non sia attestato in altre fonti è ben nota l’esistenza, in età arcaica, di edifici di culto con una copertura in marmo insulare in grado di comunicare la luce all’interno, su cui Aenne Ohnesorg, Inselionische Marmordächer (Berlin-New York: Walter de Gruyter, 1993); Ead., “Der naxische Lichtdom. Das Phänomen lichtdurchlässiger inselionischer Marmordächer”, in Licht-Konzepte in der vormodernen Architektur, ed. Peter Schneider, Ulrike Wulf-Rheidt (Regensburg: Schnell und Steiner, 2011), 92–100; Irmgard Heile, “Licht und Dach beim griechischer Tempel”, in Licht und Architektur, ed. Wolf-Dietrich Heilmeyer, Wolfram Hoepfner (Tübingen: Wasmuth, 1990), 27–34. Pausania (V, 10, 3) menziona l’uso di tegole in marmo pentelico opportunamente tagliate e sagomate per il tempio di Zeus a Olimpia.

16 La genesi del cristallo di rocca è al centro di un epigramma dei lithika di Posidippo (16 AB) e, in un’epoca assai successiva, della toccante immagine evocata da Claudiano, che descrive il progressivo scioglimento di un blocco di tale materiale tra le calde mani di un fanciullo (Ep. 38). Le tradizioni relative all’origine del cristallo di rocca e l’immaginario legato a questo materiale sono esplorati in Brigitte Buettner, “Icy Geometry: Rock Crystal in Lapidary Knowledge”, in Seeking Transparency: Rock Crystals across the Medieval Mediterranean, ed. Cynthia Hahn, Avinoam Shalem (Berlin: Gebr. Mann, 2020), 117–128; Patrick R. Crowley, “Rock Crystal and the Nature of Artifice in Ancient Rome”, in Seeking Transparency, 151–162.

17 Sull’aedes di Fortuna si veda Lucilla Anselmino, Maria Josè Strazzulla, “Fortuna Seiani, Aedes”, in Lexicon Topographicum Urbis Romae, ed. Eva Margareta Steinby, II (Roma: Quasar, 1995), 278.

18 Sulla rappresentazione degli imperatori nella Naturalis historia si veda Barry Baldwin, “Roman Emperors in the Elder Pliny”, Scholia 4 (1995): 56–78. In generale sull’uso dei comportamenti verso opere o materiali dell’arte per la costruzione del carattere di personaggi del passato di Roma si veda Anna Anguissola, “Illa torvitas: Agrippa and the Place of Images in Pliny the Elder’s Naturalis Historia”, Studi Classici e Orientali 69 (2023): 169–186.

19 Sull’Alessandro puer di Lisippo si veda Anna Anguissola in Anguissola, Faedo, “Lo sguardo di Plinio”, 119–125.

20 L’aneddoto è riferito anche da Svetonio (Nero 47.1), su cui David Sansone, “Nero’s Final Hours”, Illinois Classical Studies 18 (1993): 179–189. Per le differenze tra i due testi si veda Anguissola, The Matter of Memory, 35. L’episodio trova confronto, in Plinio, nella storia relativa alla morte di Petronio, probabilmente l’autore del Satyricon, che in punto di morte avrebbe distrutto un mestolo di murra in odio a Nerone (37.20: invidia Neronis), per privare la tavola dell’imperatore di un tale tesoro.

21 Plinio esprime una posizione ambigua sul ritratto colossale in bronzo di Nerone e sul suo artefice Zenodoro, legata alla storia dell’opera, destinata a diventare un elemento di primo piano nel programma urbanistico flavio (34.45–46). Nonostante Zenodoro sia in grado di rivaleggiare con i maestri dell’antichità greca (scientia fingendi caelandique nulli veterum postponeretur), il suo colosso di Nerone costituirebbe la tangibile dimostrazione della decadenza della bronzistica (ea statua indicavit interisse fundendi aeris scientiam); tuttavia, nella Roma degli imperatori flavi, il colosso di Nerone dicatus Soli venerationi est damnatis sceleribus illius principis. Sul colosso di Nerone e su Zenodoro si rimanda a Emily M. Cook, “Pliny the Elder in the Workshop of Zenodorus and the Materiality of Facture in the Natural History”, in Anguissola, Grüner, The Nature of Art, 112–125.

22 In 34.84 Plinio riferisce come Nerone avrebbe raccolto nei sellaria del proprio palazzo le opere d’arte trafugate in tutto l’impero. Il termine non è attestato altrove nella Naturalis historia, ma significativamente compare nella vita svetoniana di Tiberio (Tib. 43) a proposito delle stanze nella villa di Capri adibite alla consumazione di incontri sessuali e alla fruizione di immagini a tema erotico.

23 Svetonio, Nero XXXI. Tacito (Ann. XV, 42) descrive l’alternanza di paesaggi costruiti, boschi e prati (arva et stagna et in modum solitudinum hinc silvae inde aperta spatia et prospectus) nel complesso neroniano.

24 Plinio costruisce una trama di contrasti tra la Domus Aurea, dove arredi e tesori sono concentrati per il godimento esclusivo e di un uomo e il Templum Pacis, luogo di raccolta di opere d’arte destinate alla fruizione collettiva. Si veda in proposito Anguissola, The Matter of Memory, 96–98. Per il Templum Pacis si veda anche Pier Luigi Tucci, The Temple of Peace in Rome (Cambridge: Cambridge University Press, 2017).

25 Al tema della falsificazione dei contenitori in cristallo Plinio è fatto cenno anche in 36.195, a proposito di una tecnica di lavorazione del vetro (vitri ars) che sarebbe stata introdotta all’epoca di Nerone e avrebbe permesso di produrre vasi petrotoi venduti a caro prezzo.

26 Per l’uso del vetro nella falsificazione delle gemme: 37.29; 83; 98; 112; 117; 128; Sulle contraffazioni di gemme nell’enciclopedia: Patrick R. Crowley, “Factitious Gems and the Matter of Facts in Pliny’s Natural History”, in Anguissola, Grüner, The Nature of Art, 246–259.

27 La storia della lega bronzea di Corinto segue immediatamente un passo (34.5) dedicato a considerazioni di ordine morale. In 34.5 l’enciclopedista spiega come in antichità la perizia tecnica (ars) sarebbe stata ritenuta più preziosa (pretiosior) rispetto alla materia (materia) di un’opera d’arte; ai suoi tempi, invece, il prestigio dell’arte bronzistica si sarebbe estinto (auctoritas artis extincta est). Nel degrado morale del presente, conclude l’autore, nemmeno la sorte (fortuna) sarebbe in grado di produrre vere opere d’arte. Un’analoga progressione è tracciata per la pittura e i pigmenti in 35.50. Per il bronzo corinzio si rimanda a: Giovanni Becatti, Arte e gusto negli scrittori latini (Firenze: Sansoni, 1951), 13, 162–164, 205–206; Isager, Pliny, 82–83; Marta García Morcillo, “Zwischen Kunst und luxuria: die korintischen Bronzen in Plinius’ Naturalis Historia”, Hermes 138, no. 4 (2010): 442–454; Ágnes Darab, “Corinthium aes. Die Entstehung und Metamorphose einer Anekdote”, Wiener Studien 128 (2015): 69–82; da ultimo anche Stefano Rocchi, “Corinthian Bronzes and Vases from Pliny the Elder to Pliny the Younger (in the Light of a Passage by Cicero”, in Anguissola, Grüner, The Nature of Art, 217–223. In generale sui criteri di descrizione del bronzo nella Naturalis Historia si veda anche Gianfranco Adornato, Eva Falaschi, “Storia e aneddoti: Plinio e il bronzo”, in Il restauro dei grandi bronzi archeologici. Laboratorio aperto per la Vittoria Alata di Brescia, a cura di Francesca Morandini, Anna Patera (Firenze: Edifir, 2020) 81–88.

28 Si vedano, per il ruolo della sorte nella realizzazione di opere d’arte o nel loro completamento in sostituzione alla mano dell’artefice: 35.102–104; 36.14; 37.5. Un commento a questi passi, con bibliografia precedente, è in Anguissola, The Matter of Memory, 68–71.

29 La più articolata analisi del passo è in Maria Luisa Catoni, “Parian Marble and quella che si fa per forza di levare”, in Anguissola, Grüner, The Nature of Art, 157–170.

30 In linea con l’ambivalenza a proposito del progresso umano che innerva il trattato, gli interventi di scavo e di esplorazione delle viscere della terra e delle profondità del mare sono sovente oggetto di critica: per esempio in 2.158; 12.2; 22.3; 33.1–3 e 73–77; 36.2. In altri casi, le medesime attività sono elogiate come imprese di utilità collettiva: 36.104; 123.

31 L’aneddoto è incluso anche nelle Etymologiae di Isidoro di Siviglia (16.16, 6), in un passo dedicato al vetro e modellato sulla fonte pliniana. Sulla leggenda del vetro infrangibile e le sue versioni si vedano: Carlo Santini, “Il vetro infrangibile (Petronio 51)”, in Semiotica della novella latina (Roma: Herder, 1986), 117–124; Henrik R. Lassen, “The Improved Product: A Philological Investigation of a Contemporary Legend”, Contemporary Legend 5 (1995): 1–37; Edward J. Champlin, “Tiberius the Wise”, Historia 57, 4 (2008): 408–425.

32 Per l’immagine di Tiberio nell’opera storica di Cassio Dione si veda Manfred Baar, Das Bild des Kaisers Tiberius bei Tacitus, Sueton und Cassius Dio (Stuttgart: Teubner, 1990).

33 La discussione dell’ossidiana nella Naturalis historia e la trama di confronti che il testo stabilisce con l’argento sono esaminate in Annette Haug, “Silver and Obsidian. Shine and Reflection”, in Anguissola, Grüner, The Nature of Art, 35–41.

34 In un punto precedente della trattazione (36.32), Plinio elogia un’altra opera in una località della costa microasiatica, una statua di Ecate nel santuario di Artemide a Efeso dalla quale irradierebbe uno splendore (marmoris radiatio) così intenso da rendere necessario schermarsi gli occhi per ammirarla. Il sostantivo radiatio rappresenta un unicum nella Naturalis historia e, in riferimento a una superficie marmorea, trova rarissimi paralleli anche al di fuori del testo pliniano. Si tratta di un termine assai diffuso a proposito della luce prodotta dagli astri, ma raramente riferito alle superfici. L’unica occorrenza paragonabile è un passo di Arnobio (Nat. 6.24) in cui si deplora l’uso scaltrito della luce (lucis radiationibus) nelle immagini di culto pagane al fine di confondere i sensi (oculorum perstringeret sensum) e le menti attraverso il bagliore (in fulgoribus). Marziale (1.70) utilizza l’aggettivo radiatus nell’ambito di un confronto tra il colosso bronzeo del Sole e quello di Rodi. Di contro, il verbo radiare compare con notevole frequenza nel trentasettesimo libro pliniano, talora in unione a fulgor o ad altri termini che qualificano l’esperienza visiva (37.63; 69; 93; 130; 133; 146, in unione a fulgor in 37.93 e 133, sostituito dalle perifrasi spargens radios o fulgorem/radios regerere in 37.181 e 131–132).

35 Per le vite svetoniane di Nerone e Domiziano si veda Verena Schulz, Deconstructing Imperial Representation. Tacitus, Cassius Dio, and Suetonius on Nero and Domitian (Leiden-Boston: Brill, 2019), 271–339.

36 Sull’interesse romano per la dimensione della lucentezza nella decorazione parietale si vedano Nathaniel N. Jones, Painting, Ethics, and Aesthetics in Rome (Cambridge: Cambridge University Press, 2019), 137–178 e Éva Dubois-Pelerin, Le luxe privé à Rome et en Italie au Ier siècle après J.-C. (Napoli: Centre Jean Bérard, 2008), 191–271.

37 Specchi neri sono stati rinvenuti nelle domus del Frutteto o dei Cubicoli Floreali (I 9, 5), dell’Efebo (I 7, 11), degli Amorini Dorati (VI 16, 7.38). Si veda per questi materiali pompeiani Anna Anguissola, Stefano Legnaioli, Eleonora Odelli, Vincenzo Palleschi, Simona Raneri, Angelica Tortorella, “Pompeii’s Black Mirrors: Art-Historical and Scientific Investigations of Obsidian and Related Materials in the Roman World”, Marmora 17 (2021): 67–87, in particolare 84–85 per un catalogo dei pezzi. Riflettendo sul rapporto tra le caratteristiche materiali, tecniche e ottiche delle superfici parietali dipinte, Vitruvio paragona una parete affrescata a uno specchio in argento, in grado di produrre solo riflessi confusi quando troppo fine, mentre lamine solide e lisce restituirebbero immagini brillanti e definite (De arch. 7.3, 9). Allo stesso modo, un rivestimento troppo sottile si degraderebbe rapidamente, mentre una coltre spessa e resistente (marmoris soliditate sunt crassitudine spissa), una volta lisciata, genererebbe lucidi riflessi (si veda, nell’enciclopedia pliniana, 33.128 per la polita crassitudo che determina la proprietà riflettente degli specchi in argento). Il termine di paragone, uno speculum argenteum, suggerisce che il testo vitruviano si riferisca a pareti scure, simili al metallo, le cui qualità erano evidentemente valutate anzitutto nei termini della somiglianza rispetto ad altri materiali. Il principale riferimento per l’uso di campi monocromi neri nella pittura romana di età imperiale è Hélène Eristov, Delphine Burlot, “Le fond noir en peinture: marqueur du luxe et gageure technique”, Pictor 6 (2017): 225–249).

38 Per il peristilio della Casa degli Amorini Dorati si veda Florian Seiler, Casa degli Amorini Dorati VI 16,7.38 (München: Hirmer), figg. 241–295. Sui due specchi neri si rimanda ad Anguissola et al., “Pompeii’s Black Mirrors”, 85 numeri 3–4 con bibliografia precedente.

39 Seiler, Casa degli Amorini Dorati, 50 e figg. 313–315. Sull’ornato parietale dipinto ‘a tappezzeria’ (Tapetenmuster, wallpaper pattern, motivi à réseau) si rimanda a Lara Laken, “Wallpaper Patterns in Pompeii and the Campanian Region: Towards a Fifth Pompeian Style?”, in La Peinture funéraire antique, ed. Alix Barbet (Paris: Editions Errances, 2001), 295–300. Più spesso, le pareti ‘a tappezzeria’ includono gemme o medaglioni dipinti; si veda a questo proposito Ruth Allen, “Eye-Like Radiance: The Depiction of Gemstones in Roman Wall Painting”, Arts 8, no. 2: 60 (2019), https://doi.org/10.3390/arts8020060.

40 Per il programma decorativo della domus si vedano: Jessica Powers, “Beyond Painting in Pompeii’s Houses: Wall Ornaments and Their Patrons”, in Pompeii: Art, Industry and Infrastructure, ed. Eric Poehler, Miko Flohr, Kevin Cole (Oxford: Oxbow, 2011), 10–32; Verity J. Platt, “Of Sponges and Stones: Matter and Ornament in Roman Painting”, in Ornament and Figure: Rethinking Visual Onthologies in Graeco-Roman Antiquity and Beyond, ed. Nikolaus Dietrich, Michael Squire (Berlin-Boston: Walter de Gruyter, 2018), 241–278, in particolare 266–267; Neville McFerrin, “Masks, Mirrors, and Mediated Perception: Reflective Viewing in the House of the Gilded Cupids”, Arts 8, no. 3 (2021): 83, doi:10.3390/arts8030083.

41 Metodi e risultati delle analisi sono riportati in Anguissola et al., “Pompeii’s Black Mirrors”, 77–82.

42 Sembra significativo notare che, mentre Plinio sembra ritenere piuttosto comune la pratica di creare vasellame in vetro nero a imitazione dell’ossidiana, tutti i contenitori giunti fino ai giorni nostri e sottoposti ad analisi archeometriche risultano effettivamente realizzati in ossidiana. Riferimenti bibliografici a tale proposito sono riportati in Anguissola et al., “Pompeii’s Black Mirrors”, 84 nota 1.

43 Per l’organizzazione degli ultimi cinque libri pliniani si veda Isager, Pliny, 109–113, 206–209.

44 Il paragrafo di apertura del trentasettesimo libro (37.1) riassume i punti programmatici della trattazione delle gemme, miracoli di concentrazione delle facoltà di Natura (in artum coacta rerum naturae maiestas) che esistono al di fuori del perimetro delle gerarchie umane (extra pretia ulla taxationemque humanarum opum). Una sola gemma, completa nella sua perfezione, permette di contemplare il progetto della Natura nel suo insieme (ad summam absolutamque naturae rerum contemplationem satis sit una aliqua gemma). Si veda Anguissola, The Matter of Memory, 13–30. È stato notato come le sezioni introduttive e conclusive dei libri dell’enciclopedia diventino più lunghe e dense con il progredire dell’opera, evidentemente in risposta alla necessità di garantire la coerenza e la chiarezza argomentativa di un lavoro sempre più esteso e complesso: Eugenia Lao, “Taxonomic Organization in Pliny’s Natural History”, Papers of the Langford Latin Seminar 16 (2016): 209–246 (soprattutto 223). Per le introduzioni e conclusioni dei volumi pliniani si veda anche Naas, Projet encyclopédique, 212–224.

45 Nei paragrafi di apertura del secondo volume sulla cosmologia (II, 1–2), Plinio definisce la totalità del mondo (mundus) come una divinità (numen), aeternum, inmensum, al contempo il prodotto della Natura e la Natura stessa (idemque rerum naturae opus et rerum ipsa natura). Si vedano Sandra Citroni Marchetti, Plinio il Vecchio e la tradizione del moralismo romano (Pisa: Giardini, 1991); Ead., “Filosofia e ideologia nella Naturalis Historia di Plinio”, in Aufstieg und Niedergang der römischen Welt 2, no. 36, 5 (1992): 3249–3306; Ead., La scienza della natura per un intellettuale romano. Studi su Plinio il Vecchio (Pisa-Roma: Giardini, 2011).

46 Si vedano Valérie Naas, “Révélation et apprentissage dans l’Histoire naturelle de Pline l’Ancien”, in Révélation et apprentissage dans les textes grecs et latins, ed. Abel N. Pena (Lisboa: Universidade de Lisboa, 2012), 229–240; Ead., “Indicare, non indagare: encyclopédisme contre histoire naturelle chez Pline”, in Encyclopédire. Formes de l’ambition encyclopédique dans l’Antiquité et au Moyen-Âge, ed. Arnaud Zucker (Turnhout: Brepols, 2013), 145–166.

47 Sandra Citroni Marchetti, “Iuvare mortalem. L’ideale programmatico della Naturalis Historia di Plinio nei rapporti con il moralismo stoico-diatribico”, Atene & Roma 27, no. 3–4 (1982): 124–148.

48 Sui criteri tassonomici pliniani si rimanda in primo luogo a Lao, “Taxonomic Organization”, in particolare 213–224 per una discussione della bibliografia precedente. Si vedano anche Gian Biagio Conte, “L’inventario del mondo. Ordine e linguaggio della natura nell’opera di Plinio il Vecchio”, in Gaio Plinio Secondo, Storia Naturale, I (Torino: Einaudi, 1982), xvii–xlvii; Id., “L’inventario del mondo. Forma della natura e progetto enciclopedico nell’opera di Plinio il Vecchio”, in Generi e lettori (Pisa: Edizioni della Normale, 2012), 77–112; Francesco Della Corte, “Tecnica espositiva e struttura della Naturalis Historia”, in Plinio il Vecchio sotto il profilo storico e letterario (Como: Società Archeologica Comense, 1982), 19–39; Naas, Projet encyclopédique, 171–234; Carey, Pliny’s Catalogue of Culture, 26–30; Murphy, Pliny the Elder, 29–48.

49 La funzione degli aneddoti e delle biografie d’artista nella Naturalis Historia è esaminata in: Ágnes Darab, “Natura, Ars, Historia. Anecdotic History of Art in Pliny the Elder’s Naturalis Historia. Part I”, Hermes 142, no. 2 (2014): 206–224; Ead., “Natura, Ars, Historia. Anecdotic History of Art in Pliny the Elder’s Naturalis Historia. Part II”, Hermes 142, no. 3 (2014): 279–297; Verity J. Platt, “The Artist as Anecdote: Creating Creators in Ancient Texts and Modern Art History”, in Creative Lives in Classical Antiquity: Poets, Artists and Biography, ed. Richard Fletcher, Johanna Hanink (Cambridge: Cambridge University Press, 2016), 274–304; Valérie Naas, “Anecdote et théorie de l’art chez Pline l’Ancien”, in La théorie subreptice. Les anecdotes dans la théorie de l’art (XVIe-XVIIIe siècles), ed. Emmanuelle Hénin, François Lecercle, Lise Wajeman (Turnhout: Brepols, 2012), 39–52; da ultimo anche in Ead., Anecdotes artistiques chez Pline l’Ancien. La constitution d’un discours romain sur l’art (Paris: Sorbonne Université Presses, 2023), che non è stato possibile consultare durante la redazione del presente contributo.