Tracce aldrovandiane nei dipinti di Bartolomeo Passerotti

Alessandro Ceregato

IRCCS Azienda Ospedaliero-Universitaria di Bologna Policlinico di Sant’Orsola

alessandro.ceregato.bis@gmail.com

/ Abstract

Il ruolo determinante di Ulisse Aldrovandi nella riforma dell’arte sacra introdotta dal cardinale Gabriele Pa­­leotti è ampiamente documentato. Il pittore bolognese Bartolomeo Passerotti occupa un posto speciale tra gli artisti tardo-manieristi che più di tutti assimilarono le nuove idee proposte da Paleotti e Aldrovandi, per i suoi contatti diretti con Aldrovandi ma soprattutto per il loro comune interesse per il collezionismo di oggetti naturali, evidenziato in questo contributo attraverso due esempi significativi. L’accuratezza della rappresentazione degli oggetti naturali è completata dalla raffigurazione di una “glossopetra” e di un pesce palla paragonabili a quelli ancora conservati nella Sala Aldrovandi del Museo di Palazzo Poggi.

The crucial role played by Ulisse Aldrovandi in the reform of sacred art commissioned by Cardinal Gabriele Paleotti is well-documented. Within this period, the Bolognese painter Bartolomeo Passerotti occupies a special place among the late-mannerist artists who embraced Paleotti’s and Aldrovandi’s ideas. This is due in part to his direct contact with Aldrovandi, but may also be attributed to a shared interest in collecting natural objects. The present contribution examines two case studies: first, the accuracy in the representation of natural objects, which matches the depictions of a “glossopetra”; and second, a puff fish representation that can be compared directly to specimens still preserved in the Aldrovandi collection in Palazzo Poggi.

/ Keywords

Naturalistic collections; Late Renaissance painting; Representation of nature.

Del Museo che doveva rappresentare il “Teatro della Natura” così come Ulisse Aldrovandi l’aveva concepito, rimangono oggi un centinaio di esemplari certamente attribuibili alle collezioni originali, insieme all’erbario pressoché completo, rispetto a quasi tutte le xilografie che avrebbero dovuto illustrare il suo maestoso progetto editoriale, pubblicato in gran parte postumo e rielaborato dai suoi successori, e ai diciotto volumi di tavole a colori di animali e piante che riproducevano non solo esemplari della sua collezione, ma anche animali e piante che non fu possibile conservare o non mantenere riconoscibili nelle loro caratteristiche e colori. Nel progetto aldrovandiano, le rappresentazioni degli oggetti naturali, se fedeli al vero, avevano la stessa dignità degli oggetti stessi, dunque tanto le tavole quanto le matrici xilografiche, incise o ancora soltanto delineate, erano parte integrante del suo “Teatro”.1

Nel caso delle matrici per la stampa xilografica, Cornelius Swindt, Francesco Cavazzoni e Lorenzo Benini, i principali delineatores del suo laboratorio, seguendo la tradizione, riprodussero frequentemente quella che Aldrovandi considerava la fonte iconografica più autorevole, non necessariamente la fonte primaria: l’esemplare, e non soltanto le tavole della sua collezione ma frequentemente quelle tratte dalle opere a stampa di Conrad Gessner, Ippolito Salviani, Pierre Belon, Guillaume Rondelet, Leonhart Fuchs, Carolus Clusius e altri.2

Se per gli incisori su legno la sua attenzione era rivolta alla solida tradizione germanica (l’autore di quasi tutte le incisioni è Christoph Lederlein, noto anche come Coriolano, da Norimberga), per l’illustrazione naturalistica i suoi artisti di riferimento erano soprattutto italiani e nella sua collezione di tavole a colori, altrimenti dominata dal modesto artista del suo laboratorio Giovanni Neri e dal più dotato tedesco Cornelius Swindt, spiccano tra tutti Jacopo Ligozzi, artista della cerchia medicea, Teodoro Ghisi, della corte dei Gonzaga,3 e persino alcune pregevoli tavole a colori di mammiferi esotici di Giuseppe Arcimboldo, realizzate durante il suo soggiorno a Praga, al servizio di Rodolfo II.4

Sorprende che, all’interno delle collezioni di immagini di Aldrovandi, i pittori della cerchia bolognese siano scarsamente rappresentati; eppure egli mantenne stretti contatti con molti di loro anche in virtù dei nuovi canoni figurativi proposti da Paleotti e da egli stesso. La sua casa fu quindi frequentata da pittori come Camillo Procaccini, Prospero e Lavinia Fontana, Orazio Samacchini, Agostino Carracci, e soprattutto da un altro appassionato collezionista di “naturalia”: Bartolomeo Passerotti,5 descritto dallo stesso Aldrovandi come “Un uomo egregio nella pittura che dipinse numerosi ritratti dal vivo a uomini illustri, come si può vedere nel suo gabinetto e galleria di quadri”.6

Un dente di squalo fossile ai piedi di Santo Stefano

La Madonna col Bambino in trono, Sant’Antonio Abate, San Nicola di Bari, Sant’Agostino, Santo Stefano, San Giovanni Battista e gli sposi clienti Brigola fu dipinta da Bartolomeo Passerotti (o Passarotti, Bologna, 1529–1592) tra il 1560 e il 1565 per la Cappella di Sant’Antonio Abate, detta poi de’ Gargiolari, quando passò dalla famiglia Brigola a questa corporazione nel 1673. Il dipinto raffigura i coniugi Brigola alla base di un ideale triangolo con i santi ai lati e la Madonna col Bambino al vertice della composizione, la cui altezza e mediana sono segnate dalla figura del Battista che attira l’attenzione dell’osservatore rivolgendo a sé lo sguardo, figura che riproduce chiaramente in modo simmetrico lo stesso santo della Madonna di San Giorgio del Correggio (1582, ora alla Gemäldegalerie di Dresda), alla quale si ispirò. Ai piedi di Sant’Antonio Abate, i suoi simboli, una campana e una fiamma, e una passera mattugia perfettamente riconoscibile (Passer montanus Linnaeus, 1758), che rappresenta la firma di Passerotti (giocata sul cognome dal significato evidente Passerotti, che ha la sua alternativa vernacolare Passarotti, dal bolognese “passaròt”) (Fig. 1). Dall’altra parte, ai piedi di Santo Stefano protomartire, i simboli del martirio: le pietre con cui fu lapidato (Fig. 2).

Fig. 1. Madonna col Bambino in trono, Sant’Antonio Abate, San Nicola di Bari, Sant’Agostino, Santo Stefano, San Giovanni Battista e gli sposi Brigola, pala d’altare della Cappella di Sant’Antonio, opera di Bartolomeo Passerotti (1565) nella Cappella de’ Gargiolari del Santuario di San Giacomo Maggiore, Bologna (https://upload.wikimedia.org/wikipedia/commons/b/b7/Madonna_in_trono_con_Bambino_e_santi_-_Passarotti.jpg).

Fig. 2. Dettaglio della Pala (in basso a destra). Ai piedi di Santo Stefano Martire si riconosce un grosso ciottolo di fiume, alla destra del quale è raffigurato un grosso dente fossile di squalo (Foto: P. Ferrieri & G.B. Vai).

Un ciottolo di fiume sotto il suo piede sinistro, una pietra non identificata e un’altra strana pietra triangolare raffigurata leggermente obliqua. Quest’ultimo dettaglio apparentemente insignificante del dipinto è in realtà un’altra accurata rappresentazione di un oggetto reale, così come il passero nell’angolo opposto. La pietra triangolare è identificabile come un dente fossile attribuito a Charcharocles (= Otodus) megalodon (Agassiz, 1843), uno squalo gigante che seminò il terrore negli antichi mari di tutti gli Oceani fino a circa 2,6 milioni di anni fa. Denti di queste dimensioni, databili dal Miocene al Pliocene, sono rari in Italia lungo l’Appennino e nel Veneto; sono celeberrimi, per esempio, quelli provenienti dalle unità mioceniche di Malta per aver ispirato la leggenda di San Paolo Apostolo e del miracolo della pietrificazione del serpente che lo aveva morso (e stando all’abbondanza e varietà di glossopetrae in circolazione, dotato evidentemente di innumerevoli lingue) e quelle che si trovano lungo il bacino della Molasse, la regione prealpina settentrionale, che si estende per oltre mille chilometri lungo l’asse delle Alpi, attraversando Francia, Svizzera, Germania e Austria, dal lago di Ginevra alla Baviera. L’esemplare raffigurato da Passerotti, in particolare, assomiglia notevolmente a quello appartenuto a Ulisse Aldrovandi (1522–1605), esposto nella Sala Aldrovandi del Museo di Palazzo Poggi7 e figurato nel Musaeum Metallicum (la didascalia sul verso della xilografia riporta appunto il testo: “1. Ceraunij lapides […] In musaeo. 2. Ceraunij eiusdam pars [altera]”) (Fig. 3), in quanto simile all’esemplare descritto da Gessner.8 Se da questi pochi indizi, associati peraltro ad una denominazione che come si evidenzia più oltre era dubbia almeno per il curatore del Musaeum Metallicum Bartolomeo Ambrosini, si potrebbe ipotizzare un’origine transalpina dell’esemplare, le dimensioni e il tipo di conservazione sembrano ricondurre piuttosto alle formazioni maltesi, da cui provengono anche le “terre sigillate” descritte nel Musaeum e in buona parte ancora presenti tra i materiali aldrovandiani di Palazzo Poggi. Il commercio di glossopetre e di terre sigillate da Malta (o spacciate per maltesi) fu fiorente almeno per altri due secoli, come testimoniato dagli esemplari delle collezioni Cospi e Marsili, fino al Museum Diluvianum di Giuseppe e Gaetano Monti, esposti nelle stanze attigue alla Sala Aldrovandi.

Tra Passerotti e il fondatore di uno dei primi musei di storia naturale aperti al pubblico, i contatti furono frequenti e fruttuosi. Ulisse Aldrovandi, amico d’infanzia di Gabriele Paleotti, come racconta Fantuzzi nella sua Vita di Ulisse Aldrovandi,9 accompagnò il prelato alle sessioni del Concilio di Trento e probabilmente la funzione di “vera imitazione delle cose della Natura” della controriformata arte sacra, fu ispirata anche dalle passeggiate che i due amici condivisero nei dintorni di Trento nel 1562.10 Passerotti – manierista di seconda generazione, se nel suo soggiorno giovanile a Roma un Michelangelo, anziano e schivo ma ormai consegnato alla fama eterna da Vasari, lo colpì tanto da ispirargli più di un ritratto e di fatto da fondare il proprio stile pittorico sullo studio dell’anatomia secondo la via aperta dal Maestro11 – nel corso della sua evoluzione espressiva si avvicinò nello stile sempre più ai due maggiori artisti emiliani del suo secolo, Correggio e Parmigianino, e soprattutto, aderì rapidamente al nuovo corso tracciato a Bologna per le arti visive, ma era forse inevitabile: come Aldrovandi e altri in città era un collezionista di cose naturali (la sua bottega, in questo differiva dalle collezioni aldrovandiane, era una vera e propria Wunderkammer) e frequentava spesso il nascente Museo nella casa del naturalista al Vivaro de’ Pepoli (oggi via de’ Pepoli).12 Deve essere stato particolarmente colpito, ad esempio, dai pesci palla (anche in Palazzo Poggi) e dalle conchiglie esotiche raccolte da Aldrovandi e probabilmente dalla sua stessa collezione, quando nel 1577 dipinse con tanta precisione il banco del pescivendolo (vedi sotto). All’epoca della pala di San Giacomo Maggiore, l’attenzione di Aldrovandi era però rivolta ai “fossilia”, parola che si estendeva a rocce e manufatti litici, tanto che prima del termine “giologia”13 che egli coniò e adottò nel suo testamento, lo studio delle rocce e della loro origine era chiamato semplicemente “de fossilibus”.14 Fossili erano quindi tanto quelli che noi definiamo resti o tracce di un tempo vivi, quanto i minerali e le forme bizzarre che possono assumere anche semplici ciottoli, e persino i manufatti litici, purché fossili, ovvero raccolti scavando.15

Fig. 3. a. Dente di Charcharocles megalodon (Agassiz, 1843), prob. Miocene, loc. sconosciuta. Bologna, Sala Aldrovandi, Museo di Palazzo Poggi (Foto: Paolo Ferrieri);

Fig. 3. b. Illustrazioni dal Musaeum Metallicum: “1. Ceraunij lapidis pars superior 2. Eiusdem pars inferior. Hi lapides in hac tabella cum simili inscriptione fuerunt delineati, sed potius ad Glossopetras, quàm ad Ceraunias referendos esse existimamus” (Mus. Met., 610–611);

Fig. 3. c. Matrice originale, recto e verso, dettaglio delle medesime figure (Foto: Fulvio Simoni, SMA, Università di Bologna).

Il Musaeum Metallicum, compilato da Bartolomeo Ambrosini nel 1648, non senza concedersi qualche libertà, a partire dagli appunti di Aldrovandi, adotta sistematicamente la desinenza “-ites” per sottolineare la somiglianza, ma non l’identità, con le forme viventi, come nel Discorso Naturale,16 mentre scorrendo i manoscritti e le tavole, Aldrovandi spesso sembra dimenticarsene aggiungendo al massimo l’aggettivo “petraefactus” al nome dell’essere vivente più affine.17 Più di qualche dubbio sulla vera natura dei fossili cominciava a serpeggiare tra i suoi contemporanei, sebbene le intuizioni di Leonardo fossero ancora ignote, ma Fabio Colonna avrebbe svelato la vera natura delle glossopetre solo una decina d’anni dopo la morte del naturalista bolognese. Conrad Gessner, che con Aldrovandi aveva contatti diretti e da questi è ampiamente citato, sembra distinguere i denti di squalo come tali confrontando alcuni esemplari con le mascelle di uno squalo recente,18 mentre secondo l’interpretazione dominante all’epoca erano comunemente interpretati come “ceraunie” (provenienti dalle montagne dell’Epiro, dal toponimo greco Κεραύνια Όρη) o “glossopetrae” (lingue pietrificate), rispettivamente meteoriti secondo Plinio, o lingue di serpente pietrificate, secondo la tradizione del già citato miracolo di San Paolo Apostolo a Malta: in entrambi i casi a questi fossili venivano attribuite virtù medicinali. Stando a quanto si legge sul verso della matrice incisa e su una delle tavole che raffigurano questi fossili, Aldrovandi sembra optare per una di queste interpretazioni: nella descrizione dell’esemplare ancora oggi conservato in museo e raffigurato nel Musaeum Metallicum, indicato come ceraunia sul verso della matrice come una punta di ascia anch’essa conservata a Palazzo Poggi. L’autore della didascalia (presumibilmente Ambrosini), le descrive di seguito come dubbie, riportando fedelmente la dicitura sul verso della matrice ma suggerendo una maggiore affinità del fossile con le tipiche glossopetre.

Aldrovandi e Passerotti vivono in un contesto in cui mitologia e scienza si intrecciano e vengono alimentate dai racconti dei viaggiatori di ritorno dalle terre appena scoperte. Mentre il progetto di Aldrovandi è quello di inventariare e determinare un criterio per ordinare gli oggetti naturali, Passerotti non persegue questi obiettivi del naturalista, ma condivide con lui l’osservazione analitica degli oggetti naturali e il desiderio di rappresentarne fedelmente al vero la varietà e l’essenza.

Fig. 4. Bartolomeo Passerotti, La Pescheria, ca. 1577, olio su tela. Roma, Galleria Nazionale di Arte Antica - Palazzo Barberini. (https://commons.wikimedia.org/wiki/File:Bartolomeo_Passerotti_-_The_Fishmonger%27s_Shop_-_WGA17072.jpg).

Un pesce palla dal pescivendolo

La versione de La Pescheria dipinta nel 1577–78, esposta oggi presso la Galleria Nazionale d’Arte Antica di Roma19 (Fig. 4), è caratterizzata da un banco del pesce in cui il pesce fresco è rappresentato da una testa di luccio (Esox lucius Linnaeus, 1758) e da due barbi (Barbus barbus Linnaeus, 1758), pesci allora molto comuni nei corsi d’acqua e nelle zone paludose della campagna bolognese, da un enorme esemplare di astice (Homarus gammarus [Linnaeus, 1758]), e dalle grandi conchiglie di Pinna nobilis (Linnaeus, 1758), allora abbondanti nel mare Adriatico. Alcune testuggini terrestri (Testudo hermanni Gmelin, 1789) sembrano voler fuggire dal cesto per evitare di finire in brodo.

Bartolomeo Passerotti dipinse nuovamente un banco del pesce traboccante di carpe e di lucci delle sue parti (uno di questi, quasi ad anticipare il caravaggesco ragazzo morso dal ramarro, addenta il pescivendolo), ma anche di pescato di mare come l’orata, la gallinella, il palombo e la canocchia. Ma nel quadro del 1577–78, la mercanzia tipica del pescivendolo dell’epoca si esaurisce per lasciare il posto a una spettacolare collezione di conchiglie quasi interamente esotiche, se si esclude una tonna gigante (Tonna galea [Linnaeus, 1758]) in primo piano e un grosso tritone (Charonia lampas [Linnaeus, 1758]). Un cono, Conus cf. litteratus (Linnaeus, 1758), Lambis cf. lambis (Linnaeus, 1758), una conchiglia corniola (Cypraecassis rufa [Linnaeus, 1758]), una porpora (‘Murex’ sp.), ecc. riempiono il cesto di un raffinato collezionista di cose naturali più che di un cuoco (non a caso il gatto sullo sfondo è più interessato al solito passero con cui si firma il pittore, che al pesce), ma su tutti, nelle mani della pescivendola spicca un pesce palla (Arothron sp.): un pesce proveniente dalla Regione Indopacifica oggi noto nella cucina giapponese per la preparazione del sushi e per gli effetti potenzialmente letali della tetrodotossina contenuta nelle sue carni. Ai tempi di Passerotti e Aldrovandi era invece il pezzo forte di ogni collezione naturalistica. A differenza della maggior parte dei pesci, era più facile da conservare grazie all’epidermide irrobustita da minute squame cornee. L’animale veniva svuotato delle parti molli, saldamente ricucito e gonfiato e poi essiccato. Successivamente gli si potevano applicare grandi occhi di ceramica o di vetro e a volte lo si “mostrificava” privando il muso dei quattro grandi denti con cui tritura i coralli e rimodellando la bocca. L’esemplare raffigurato dal Passerotti è del tutto simile a quelli conservati nelle vetrine della Sala Aldrovandi, in particolare quello più piccolo, purtroppo incompleto (Fig. 5), forse il medesimo della tavola raffigurante un “Orbis Niloticus virgis subnigris”20 (Fig. 6).

Fig. 5. Pesci palla imbalsamati (Arothron, spp.) della collezione di Ulisse Aldrovandi. Bologna,

Sala Aldrovandi, Museo di Palazzo Poggi (Foto: Luca Tonetti).

Fig. 6. Pesce palla (Arothron, sp.), BUB, Tavole di Animali, vol. 4, c. 116.

Come nel caso della glossopetra, evidentemente anche il pesce palla doveva essere un pezzo ambito sia per una collezione eminentemente naturalistica come quella di Ulisse Aldrovandi che evidentemente della Wunderkammer di Bartolomeo Passerotti. Si è tentati di immaginare che i due, anche insieme a qualche altro appassionato collezionista, come il vecchio amico Paleotti o un altro vicino di casa di Aldrovandi, Antonio Giganti, confrontassero le rispettive collezioni e si scambiassero gli esemplari con lo stesso impegno dei moderni collezionisti di conchiglie e altri oggetti naturali, che possono ancora ingaggiare accese, interminabili discussioni intorno a un singolo esemplare.


© Alessandro Ceregato, 2022 / Doi: 10.30682/aldro2201d
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1 Sandra Tugnoli Pàttaro, “Il museo aldrovandiano”, in I luoghi del conoscere: i laboratori storici e i musei dell’Università di Bologna, a cura di Franca Arduini (Bologna: Banca del Monte di Bologna e Ravenna, 1988), 50–55.

2 Giuseppe Olmi, Paolo Prodi, “Gabriele Paleotti, Ulisse Aldrovandi e la cultura a Bologna nel secondo Cinquecento”, in Nell’Età di Correggio e dei Carracci. Pittura in Emilia dei secoli XVI e XVII, a cura di Andrea Emiliani (Bologna: Nuova Alfa Editoriale, 1986), 213–235.

3 Ibid., 224.

4 Sylvia Ferino-Pagden, “Arcimboldo ritrattista della natura”, in Arcimboldo. 1526–1593, a cura di Sylvia Ferino-Pagden (Milano: Skira, 2008), 102–111; Manfred Staudinger, “Arcimboldo e Ulisse Aldrovandi”, ibid., 112–117.

5 Olmi, Prodi, “Gabriele Paleotti, Ulisse Aldrovandi”, 224.

6 “Vir egregius in Pictura qui ad vivum effigies virorum illustrium varias depixit, ut videre est in eius Gazophilatio, et picturarum Theatro”, in Biblioteca Universitaria di Bologna (BUB), Fondo Aldrovandi, ms. 136, tom. XXIV, cc. 21v–35v. Anche in Olmi, Prodi, “Gabriele Paleotti, Ulisse Aldrovandi”, 224.

7 Alessandro Ceregato, Gian Battista Vai, “Sullo sfondo: visita geologica pittorica alle cappelle Bentivoglio e S. Antonio nel tempio di San Giacomo Maggiore, Bologna”, Natura e Montagna 63, no. 2 (2016): 18–31. https://www.naturaitalica.it/wp-content/uploads/2020/02/2-Sullo-sfondo-visita-geologica-pittorica-alle-cappelle-Bentivoglio-e-S.-Antonio-nel-tempio-di-San-Giacomo-Maggiore-Bologna_compressed.pdf (ultimo accesso 30 aprile 2022).

8 Ulisse Aldrovandi, Musaeum Metallicum in Libros III distributum, ed. Bartolomeo Ambrosini (Bologna: Typis Io. Baptistae Ferronij, 1648), 610–611.

9 Giovanni Fantuzzi, Memorie della vita di Ulisse Aldrovandi, Medico e Filosofo Bolognese, con alcune Lettere scelte d’Uomini eruditi a lui scritte, e coll’Indice delle sue Opere Mss che si conservano nella Biblioteca dell’Istituto (Bologna: Lelio Dalla Volpe, 1774), 1–263.

10 Olmi, Prodi, “Gabriele Paleotti, Ulisse Aldrovandi”, 225.

11 Angela Ghirardi, “Bartolomeo Passerotti, il culto di Michelangelo e l’anatomia nell’età di Ulisse Aldrovandi”, in Rappresentare il corpo: arte e anatomia da Leonardo all’Illuminismo, a cura di Giuseppe Olmi (Bologna: Bononia University Press, 2004), 151–164; Ead., Bartolomeo Passerotti, pittore, 1529–1592: Catalogo generale (Rimini: Luisè, 1990).

12 Fantuzzi, Memorie della vita di Ulisse Aldrovandi.

13 Gian Battista Vai, “Aldrovandi’s Will Introducing the Term ‘Geology’ in 1603”, in Four Centuries of the Word Geology: Ulisse Aldrovandi 1603 in Bologna, ed. Gian Battista Vai and William Cavazza (Bologna: Minerva Edizioni, 2003), 65–111.

14 Gian Battista Vai, William Cavazza, “Ulisse Aldrovandi and the Origin of Geology and Science”, in The Origins of Geology in Italy, ed. Gian Battista Vai, W. Glen E. Caldwell (Boulder Co USA: Geological Society of America Special Paper 411, 2006), 43–63.

15 Nicoletta Morello, La macchina della terra: Teorie geologiche dal Seicento all’Ottocento (Torino: Loescher, 1979), 1–231.

16 Ulisse Aldrovandi, “Discorso naturale di Ulisse Aldrovandi philosopho et medico Nel quale si tratta in generale del suo Museo et delle fatiche da lui usate per raunare da varie parti del Mondo quasi un Theatro di Natura, tutte le cose sublunari come Piante, Animali et altre cose Minerali. Et parimente vi s’insegna come si de’ venir nella certa et necessaria cognitione d’alcuni Medicamenti incerti et dubbij, ad utilità grandissima non solo de Medici: ma d’ognuno altro studioso. All’Illustrissimo et Eccellentissimo Signor Giacomo Boncompagni Castellano di S. Angelo”, BUB, Fondo Aldrovandi, ms. 91, cc. 503r–509r.

17 Alessandro Ceregato, “I fossili nell’armadio”, in Ulisse Aldrovandi – Natura picta, a cura di Alessandro Alessandrini, Alessandro Ceregato (Bologna: Editrice Compositori, 2007), 107–109.

18 Conrad Gesner, De rerum fossilium, lapidum et gemmarum maximè, figuris & similitudinibus liber: non solùm medicis, sed omnibus rerum naturae ac philologiae studiosis, vtilis & iucundus futurus (Tiguri: excudebat Iacobus Gesnerus, 1565), 162–164.

19 Angela Ghirardi, “Bartolomeo Passerotti, Pescheria, 1580 ca.”, in Il viaggio. Mito e Scienza, a cura di Walter Tega (Bologna: Bononia University Press, 2007), 182–183.

20 Bologna, BUB, Fondo Aldrovandi, “Tavole di animali”, vol. 4, c.116.