L’erbario di Ulisse Aldrovandi:
attualità di una collezione rinascimentale di piante secche

Fabrizio Buldrini

Dipartimento di Scienze Biologiche, Geologiche e Ambientali, Università di Bologna

Sistema Museale di Ateneo, Università di Bologna

fabrizio.buldrini@unibo.it

Alessandro Alessandrini

Ricercatore indipendente

Umberto Mossetti

Sistema Museale di Ateneo, Università di Bologna

Giovanna Pezzi

Dipartimento di Scienze Biologiche, Geologiche e Ambientali, Università di Bologna

Juri Nascimbene

Dipartimento di Scienze Biologiche, Geologiche e Ambientali, Università di Bologna

/ Abstract

Essiccare le piante per scopo di studio, confronto e scambio fra studiosi era divenuto una prassi dalla prima metà del XVI secolo grazie all’opera di Luca Ghini, fondatore degli orti botanici di Pisa e Firenze. Fra i pochi erbari rinascimentali oggi conosciuti, quello di Ulisse Aldrovandi occupa un posto di primo piano per quantità e varietà dei campioni, giacché proprio in esso si trova una delle primissime testimonianze a livello continentale – se non la prima in assoluto – di molte specie d’uso corrente in Europa, introdotte dal Nuovo Mondo, così come di varie altre oggi protette perché assai rare o a rischio d’estinzione. Nel presente contributo s’illustrano alcune specie contenute in questo erbario, scegliendole fra le più notevoli per ragioni storiche, geografiche e scientifiche.

Drying plant specimens for the purposes of study, comparison, and exchange among scholars in the first half of the 16th century is a practice owed largely to the works of Luca Ghini, the founder of the botanical gardens in Pisa and Florence. Among the few Renaissance herbaria known today, that of Ulisse Aldrovandi is the most prominent in terms of quantity and variety of specimens. Indeed, it is within this work that one encounters one of the first specimens in continental Europe – if not the very first – of species currently used in Europe, introduced from the New World, as well as a variety of other species that are now protected due to their rarity or risk of extinction. The present contribution illustrates some of the species contained in this herbarium and highlights a number of the most notable in terms of their historical, geographic, and scientific importance.

/ Keywords

New World; Ancient herbaria; Rare species.

© Fabrizio Buldrini, Alessandro Alessandrini, Umberto Mossetti, Giovanna Pezzi, Juri Nascimbene, 2023 /
Doi: 10.30682/aldro2301a. Tutte le Figure © Alma Mater Studiorum - Università di Bologna – Biblioteca Universitaria di Bologna. Vietata ogni ulteriore riproduzione o duplicazione con qualsiasi mezzo.
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1. Ulisse Aldrovandi e il suo erbario1

Ulisse Aldrovandi (Bologna, 1522 – ivi, 1605) è stato uno dei massimi studiosi europei di storia naturale del Rinascimento. Naturalista eclettico, precursore (insieme con Andrea Cesalpino) della tassonomia vegetale,2 professore di botanica e storia naturale a Bologna per quasi mezzo secolo,3 aveva radunato nella sua vita una delle più vaste collezioni di reperti naturalistici del suo tempo (oltre 18000 pezzi nel 1595), concepita come vero e proprio museo da arricchire continuamente e di cui servirsi come strumento di studio e osservazione dal vero.4

Di tale collezione fa parte anche un ricco erbario, di mano di Aldrovandi, per quanto la sua grafia compaia di rado, frutto sia delle numerose campagne di raccolta da lui effettuate negli anni Cinquanta e Sessanta del Cinquecento, sia dei continui scambi coi molti studiosi italiani e stranieri coi quali era in contatto (un primo catalogo del suo epistolario rivela una corrispondenza più o meno assidua con 446 personaggi – medici, speziali, naturalisti, umanisti, letterati, politici, prelati… –, non pochi dei quali di fama europea: solo in ambito botanico ricordiamo fra i tanti Clusio, Lobelio, Camerario, Casabona ecc.).5 Egli, infatti, aveva una concezione dello studio e della ricerca scientifica che potremmo in un certo senso definire collettiva, in cui i risultati non sono opera di un singolo studioso, ma derivano dall’apporto di tanti collaboratori. Se è vero che Aldrovandi supervisionava e coordinava l’opera altrui, egli tuttavia non esitava a riconoscere ad altri la paternità di una nuova scoperta.6 Questo clima di collaborazione, all’epoca, era comune in varie realtà italiane ed europee:7 i viaggi degli studiosi fra diverse università e fra diversi Stati facilitavano la circolazione delle idee e dei nuovi metodi di studio. Così, ad esempio, attorno a Luca Ghini si era creata una vera e propria scuola di botanica i cui membri, occupando poi sedi universitarie diverse, avevano divulgato la sua dottrina in Italia e in buona parte d’Europa.8 Nello stesso periodo, Pietro Andrea Mattioli, allievo e amico di Ghini, traducendo e commentando la Materia medica di Dioscoride, promuoveva attivamente una nuova conoscenza delle piante medicinali non più necessariamente vincolata alle fonti antiche (in ciò seguendo le orme di Leoniceno).9 Mattioli, infatti, grazie anche alla lunga permanenza a Praga e ai frequenti viaggi, aveva acquisito una cognizione della distribuzione delle specie in luoghi diversi affatto rara alla sua epoca, che avrebbe gettato le basi dei futuri studi floristici e fitogeografici in vari Paesi dell’Europa centrale.10 Aldrovandi, a sua volta allievo di Ghini e in contatto epistolare con Mattioli, era dunque inserito in una rete di corrispondenze con varie personalità di spicco della scienza dell’epoca, il che gli aveva consentito di essere costantemente aggiornato sulle nuove scoperte naturalistiche provenienti da ambienti geograficamente distanti.

La realizzazione dell’erbario si inserisce nella lunga tradizione degli horti picti medievali, radicalmente trasformati fra Quattro e Cinquecento grazie al progressivo avvento dell’illustrazione scientifica ex vivo: l’Herbarium vivae eicones di Otto Brunfels, il Kreüter Büch di Hieronymus Bock e il De historia stirpium di Leonhart Fuchs, pubblicati fra il 1530 e il 1546, sono i primi illustri esempi in questo senso.11 Dopo la caduta di Costantinopoli e il conseguente arrivo in Europa di molti studiosi di lingua e cultura greca, infatti, la riscoperta dei classici in lingua originale aveva suscitato fra i medici e gli scienziati più accorti l’esigenza di tornare a una lettura corretta (dal punto di vista sia filologico sia scientifico) di questi autori, e in particolar modo di Galeno, già soggetti a secoli di corruzione imputabile a errori dei copisti e alla tradizione interpretativa araba.12 La trasformazione culturale del Rinascimento, inoltre, che aveva condotto gli studiosi ad accostarsi ai fenomeni non più attraverso il solo studio delle auctoritates degli antichi, ma tramite l’osservazione diretta e l’esame obiettivo, aveva portato alla necessità di disporre in ogni momento di rappresentazioni iconografiche esatte e – meglio ancora – di campioni dell’oggetto di studio su cui trarre le dovute considerazioni. L’esame obiettivo, infatti, toglie valore al principio d’autorità, sostituito dalla verificabilità e ripetibilità dell’osservazione.13 Era nata dunque l’esigenza di ripensare l’illustrazione scientifica, ridefinendola come copia dal vero, non più raffigurazione astratta che mettesse in risalto le vere o presunte qualità terapeutiche, com’era stato per gran parte del Medioevo.14 In parallelo, era nata anche l’esigenza di osservare dal vivo le piante, studiandole con continuità nelle diverse fasi della loro vita: se già era normale coltivarle per scopi medicinali negli orti dei conventi e in giardini privati cittadini,15 le università iniziarono a dotarsi di horti vivi (gli orti botanici), appositamente intesi all’indagine obiettiva secondo questi nuovi criteri, di cui i primi al mondo furono aperti in Italia fra il 1543 e il 1545. Negli stessi anni Quaranta del Cinquecento avevano visto la luce anche gli horti sicci (ossia gli erbari di piante essiccate), complemento e integrazione degli horti vivi, nonché campionario disponibile in ogni stagione delle specie al tempo note o di recente arrivo, utile per memoria, per confronto, per riferimento a un’identificazione certa. In realtà, la pratica di seccare piante tra fogli di carta è probabilmente assai più antica;16 tuttavia, l’uso per scopo di studio è universalmente attribuito a Luca Ghini, primo utilizzatore assiduo di questa tecnica17 e assertore della sua imprescindibile importanza (anche maggiore di quella attribuita alle immagini) per l’indagine scientifica.18 Non ci sono pervenute le collezioni di Ghini, mentre di molti dei suoi allievi gli erbari sono sopravvissuti fino ai nostri giorni.19 L’Erbario Aldrovandi, composto fra il 1551 e il 1586, è uno di questi pochi superstiti: formato in origine da oltre 5000 campioni di piante, al tempo era con ogni probabilità uno tra i più ampi d’Europa. Almeno dal punto di vista scientifico, Aldrovandi lo aveva allestito con gran cura20 e lo aveva concepito con larghezza d’intenti e di vedute, dal momento che intendeva includervi tutte le specie vegetali allora note, soprattutto quelle di recente scoperta e la cui circolazione era ancora limitata.21 Nondimeno, le piante non sono disposte secondo un metodo preciso (eccezion fatta per i volumi I e II, che seguono l’ordine alfabetico),22 ma in base – pare – all’ordine cronologico con cui le ottenne l’autore, peraltro non sempre rispettato.

Lo studio dell’intero erbario e dei manoscritti aldrovandiani a esso correlati, svolto da Adriano Soldano, ha permesso l’identificazione dei campioni secondo gli odierni criteri scientifici e l’assegnazione a ciascuno della località di raccolta, o provenienza tramite scambio con altri studiosi. Vi sono specie erborizzate in Spagna, Francia, Olanda, Svizzera, Germania, Illiria (la zona montuosa dell’ex Jugoslavia), Grecia, Turchia, Siria, Egitto, Arabia, India e America centro-meridionale; il 91% delle piante fu però raccolto in Italia e, in particolare, il 39% dei campioni proviene dal territorio bolognese: dalla città (orti privati), da centri vicini (es. Casalecchio, Rastignano), dalla pianura (Galliera, Molinella) o dalle zone collinari o appenniniche (es. Croara, Sasso Marconi, Porretta, Corno alle Scale).23

La peculiarità dell’Erbario Aldrovandi risiede proprio nel fatto che l’autore, a differenza degli studiosi suoi contemporanei, aveva annotato la provenienza di questi reperti vegetali,24 ora con un riferimento generico alla zona geografica (“in montibus Helvetiae”, o “ex Hispania” ad esempio), ora con un dettaglio analogo a quanto si legge nelle Flore odierne (es. “gran copia ne nasce al Lio appresso il mare a Venegia”, “nasce ne l’Alpi di Rio di Lunato fra fissure di duri sassi in luoghi umbrosi”): ciò permette a campioni di quasi cinque secoli fa di essere studiati e usati come se fossero stati raccolti ai giorni nostri, utili quindi in analisi diacroniche della biodiversità vegetale, storia della flora ecc. Questo aspetto costituisce un vero e proprio unicum a livello europeo e forse mondiale ed è una prova dell’acume scientifico dell’autore: ancora ai primi dell’Ottocento, l’indicazione precisa dei dati di raccolta del campione era un’esigenza poco sentita, perché la botanica non era una scienza autonoma (si svincolerà dalla medicina proprio negli anni del Congresso di Vienna) e non erano compiutamente definiti i confini e i criteri dello studio floristico, sicché fino a quel tempo “reputavasi un lusso il segnare dove si era trovata una pianta” ed essendo il botanico prima di tutto un medico “a lui non premeva di conoscere la distribuzione geografica, ma solo il nome delle piante, la forma e le virtù”.25

Per la ricchezza di specie in esso contenute, l’Erbario Aldrovandi non di rado può svolgere un ruolo di chiave di lettura e identificazione di campioni in altre collezioni coeve.26 Inoltre, in questo erbario si contengono i primi campioni d’Europa di alcune specie di fondamentale importanza storica ed economica:27 il tabacco per esempio,28 ma anche il loto degli antichi,29 lo spigo nardo,30 il cavolo, il navone, la rapa, la senape bianca e nera,31 il moly, già citato da Omero nell’Odissea,32 e poi pomodoro,33 melanzana,34 olivo,35 palma da datteri, castagno,36 mais,37 zucca, peperone ecc. Allo stato attuale delle conoscenze, la raccolta di piante secche di Aldrovandi risulta la più ampia, la più ricca e la più diversificata fra quelle rinascimentali:38 limitando il discorso al territorio italiano, egli aveva raccolto 1200 specie vegetali (intese in senso odierno), ossia oltre 1/7 dell’intero patrimonio floristico nazionale oggi noto,39 con tre secoli di anticipo rispetto all’uscita della prima Flora italiana, pubblicata da Antonio Bertoloni fra il 1833 e il 1854.40 Non poche delle specie agglutinate nel suo erbario erano ignote alla scienza dell’epoca, nel senso che egli è stato il primo a raccoglierne e descriverne alcuni esemplari: occorrerà attendere anche 250 anni, in vari casi, perché queste specie siano riscoperte e pubblicate in opere di concezione moderna.41

Per meglio comprendere l’importanza dell’Erbario Aldrovandi nel suo valore scientifico,42 nei paragrafi che seguono saranno brevemente esaminate alcune delle specie notevoli presenti in questa collezione, scelte fra quelle con una particolare importanza economica, storica o per la conservazione biologica in ambito italiano ed europeo. L’intento è di mettere in luce come la raccolta di piante secche del naturalista bolognese, pur se non sempre perfettamente preservata nei secoli, per la sua vastità e per i criteri particolari con cui l’autore la concepì possa fornire spunti per ricerche d’ambito storico, mitologico, floristico-ecologico, fitogeografico ecc. In altre parole, le “storie” che questo erbario può raccontare sono molteplici, in discipline anche ben lontane fra loro: qui si è tentato di sintetizzarne qualcuna, per suggerire una fruizione delle collezioni scientifiche non settoriale, ma nei limiti del possibile aperta a saperi diversi.

2. Alcune piante degne di nota dell’Erbario Aldrovandi

2.1 Il tabacco

Di questa pianta sono conservati tre campioni, in ottimo stato:

- vol. XII, c. 198r: Nicotiana, siue Sana sancta, siue Tabacum minimum Lobell.;

- vol. XIV, c. 12r: Nicotiana carens pediculo in folijs;

- vol. XIV, c. 13r: Nicotiana carens pediculis in folijs; sul foglio sono poi scritti altri nomi coi quali la pianta era nota all’epoca: Nicotiana siue Tabacum, Sana sancta, Herba Reginæ, Herba sancta, Buglossum Antarticum (Fig. 1).

Gli exsiccata, ascritti a Nicotiana tabacum L., risalgono al 1564 (vol. XII) e 1567 (vol. XIV);43 l’unico altro erbario cinquecentesco in cui la specie è rappresentata è l’Erbario Estense (c. 48r, n. 58), datato però al periodo 1570–1598.44 Nel nostro continente, infatti, il tabacco giunse nei primissimi decenni del XVI secolo (già nel suo primo viaggio Colombo ne aveva osservato l’uso e gli effetti fra le popolazioni indigene americane),45 prima nella Penisola Iberica, poi in Francia. In Italia giunse attorno al 1560:46 si capisce pertanto come Aldrovandi non avesse indugiato a procacciarsi campioni di questa nuova specie, già ampiamente rinomata per le sue virtù terapeutiche contro le malattie della pelle, ferite ed emicrania, che dovevano apparire quasi miracolose alla medicina del tempo, al punto da divenire la pianta americana di più rapida diffusione a livello europeo.47 Preme ricordare che Aldrovandi aveva annotato la provenienza dei suoi tre reperti: il primo (vol. XII, c. 198r) gli era stato inviato da Dionisio Pucher dall’India,48 gli altri due dal suo corrispondente romano Ippolito Salviani, che aveva ricevuto i semi dall’India e gli aveva poi spedito foglie e semi.49 Fra studiosi, lo scambio di piante vive o parti essiccate era infatti pratica comune all’epoca: era la via più rapida ed efficace per procurarsi nuovi esemplari e tenersi aggiornati sull’andamento delle scoperte scientifiche. E Aldrovandi, che (sempre limitando il discorso alla botanica) manteneva più o meno assidui contatti con una cinquantina di studiosi di storia naturale e appassionati di scienza a vario titolo (i cosiddetti curiosi di Natura) italiani e stranieri,50 di certo era secondo a pochi in Europa per vastità della rete di scambi: anche a questo si deve la straordinaria ampiezza e ricchezza del suo erbario.


Fig. 1. Il campione di tabacco (Nicotiana tabacum L.) preservato nel vol. XIV, c. 13r.

Del tabacco, le prime testimonianze iconografiche a livello europeo sono alcuni disegni inediti del medico e botanico tedesco Leonhart Fuchs, datati al 1542 (ritrasse anche Nicotiana rustica L., un’altra specie di tabacco, oltre a N. tabacum),51 e la trattazione del Dodoneo (al secolo Rembert Dodoens) di N. rustica, del 1554;52 per una descrizione precisa delle sue qualità medicinali occorrerà però attendere gli studi dello spagnolo Nicolás Bautista Monardes Alfaro e del francese Jacques Gohori, apparsi nei primi anni Settanta del Cinquecento.53 In Italia, invece, la prima descrizione delle proprietà farmacologiche del tabacco è del decennio seguente, opera del medico umbro Castore Durante.54 È curioso ricordare che, per quanto gli indigeni americani la conoscessero anche come pianta da fumo,55 di fatto era ben più spesso usata per combattere fame, sete e stanchezza. Parimenti, in Europa furono innanzi tutto accertate proprietà vulnerarie, antielmintiche, antidolorifiche, bechiche, antiasmatiche, purgative ed espettoranti; inoltre, se ne dimostrò l’efficacia nella risoluzione di malattie della pelle come polipi nasali, tigna e geloni. Nondimeno, l’uso medicinale iniziò non prima della metà del Seicento,56 forse per la velenosità della pianta stessa;57 l’uso ricreativo si diffuse invece rapidissimo, tanto che si poté dire che il tabacco in due secoli avesse conquistato il mondo intero. O fumandone le foglie essiccate e arrotolate, o adoperandolo triturato nella pipa, o invece aspirandone la polvere nel naso, il tabacco provocò una sorta di rivoluzione culturale in moltissimi Paesi, con grande profusione di opere elogiative delle sue vere o presunte qualità e altrettanta profusione di opere denigratorie, che puntavano il dito contro la puzza e il disgusto cagionato da coloro che più sovente ne assumevano.58

2.2 Il loto degli Antichi

Di questa pianta sono conservati tre campioni, in buono stato:

- vol. I, c. 275r: Lotus vera. Laurus regia Plin. Lignum sanctum Patavii;

- vol. IV, c. 17r: Lotus arbor. Sebesten alijs. Pseudolotus in Germanico codice Matthioli. Laurus regia. Diospyros sive Faba Graeca latifolia. Pseudolotus Matth. (Fig. 2);

- vol. VI, c. 234 r: Lothus vera.

Gli exsiccata, ascritti a Diospyros lotus L., risalgono al 1551 (vol. I), 1552 (vol. IV) e 1553 (vol. VI) e provengono tutti da giardini privati o giardini di chiese in Bologna o dalle immediate vicinanze (lungo il torrente Savena a San Giovanni in Polo, probabilmente nei pressi dell’odierno quartiere Cirenaica).59 Gli unici altri campioni conosciuti sono custoditi nell’Erbario B della Biblioteca Angelica di Roma, datato al 1550–1553 (vol. III, c. 24r, n. 679),60 nell’Erbario En Tibi, conservato nei Paesi Bassi a Leida e datato al 1558 circa (c. 264r, n. 420),61 e nell’Erbario Cesalpino, conservato a Firenze e datato al 1557–1563 (c. 4r, n. 12).62 Nel nostro continente, D. lotus giunse però in epoca romana, come frutta di lusso per il particolare gusto delle sue bacche, simili a piccoli kaki (i primissimi reperti d’Europa, consistenti in due calici fiorali, provengono infatti da siti archeologici della città di Modena datati al I sec. d.C.);63 a metà del Cinquecento iniziarono a discuterne gli studiosi, impegnati nel difficile compito di determinare quali fossero in realtà le piante che gli antichi conoscevano e descrivevano nelle loro opere. Le prime dissertazioni, almeno a livello nazionale, sono di Pietro Andrea Mattioli, medico e botanico senese, pubblicate nell’edizione del 1565 dei suoi Commentarii ai Discorsi di Dioscoride.64

In Italia, D. lotus (nota come dattero di Trebisonda, ermellino, guaiaco, loto falso, legno santo, legno o albero di sant’Andrea, in quanto il suo legno sarebbe stato usato per costruire la croce di sant’Andrea) è specie esotica casuale, sporadicamente coltivata in parchi e giardini e qua e là inselvatichita, talvolta da lungo tempo: già Antonio Targioni Tozzetti, botanico toscano dell’Ottocento, ne congetturava un’antica coltura a scopo ornamentale, che avrebbe provocato la parziale naturalizzazione della specie in luoghi favorevoli alla sua crescita,65 come si osserva ancor oggi.66

Per il sapore delizioso dei suoi frutti, è facile che la pianta fosse nota già agli antichi. Secondo alcuni studiosi, addirittura, non è improbabile che D. lotus sia alla base della leggenda dei lotofagi, mitico popolo delle coste dell’Africa settentrionale citato da Omero nell’Odissea: il poeta greco, parlando dei frutti del loto, li dice infatti “dolci come il miele”,67 ciò che indusse qualcuno a credere di poter identificare i frutti di D. lotus con quelli consumati dai lotofagi.68 In effetti, la specie, oggi ritenuta originaria delle zone fra Iran e Uzbekistan,69 si rinviene anche nei Balcani, nel Caucaso, in Asia Minore e verso oriente si spinge fino alla Cina e al Giappone;70 nel bacino del Mediterraneo è ampiamente naturalizzata. I frutti, piccoli e globosi, sono assai aspri se acerbi, ma dolci e polposi a maturità; pertanto, sono consumati come frutta in varie zone dell’Asia e in Turchia usati per ricavarne bevande.71 È spesso coltivata come portainnesto per D. kaki L. fil. (il kaki), cui conferisce maggior robustezza e resistenza alle avversità del clima; in Cina, India, Pakistan e Malesia è nota come pianta medicinale.72

Fig. 2. Il campione di loto degli Antichi (Diospyros lotus L.) preservato nel vol. IV, c. 17r.

2.3 Lo spigo nardo

Di questa pianta è conservato un solo campione, in ottimo stato (vol. II, c. 307r, n. 1: Nardus indica – Fig. 3); in realtà i campioni in origine erano due, ambo agglutinati sulla stessa pagina 307 del vol. II, ma uno fu asportato già in tempi remoti, strappando parte del foglio. La datazione è al 1551 e la provenienza è dall’India.73 Gli altri campioni rinascimentali conosciuti, custoditi nell’Erbario B della Biblioteca Angelica di Roma (vol. III, c. 102r, n. 843), nell’Erbario En Tibi (c. 20r, n. 41) e nell’Erbario Estense (c. 98r, n. 120), sono datati rispettivamente al 1550–1553, al 1558 circa e al 1570–1598.74

Pianta utilizzata sin dalla più remota antichità nella tradizione farmacologica, cosmetica e cultuale, oggi la scienza è concorde nel ritenere che il nardo indiano corrisponda a Nardostachys jatamansi (D. Don) DC.,75 specie delle montagne dell’Himalaya nord-occidentale in Pakistan, India, Nepal e Cina, dove cresce su pendii umidi, rocciosi, ma ammantati d’erba, fra i 2200 e i 5000 m sul mare.76 È una pianta erbacea perenne, con steli alti fra 10 e 60 cm, recanti all’apice infiorescenze di piccoli fiori rosei a 5 petali; le foglie basali sono verde scuro, munite di picciolo, lunghe 15–20 cm e riunite in gruppi, mentre altre, portate dagli steli, sono più piccole, prive di picciolo e portate a coppie. Gli steli, ingrossati alla base, nascono da un rizoma lungo vari centimetri e grosso quanto un dito; sia il rizoma sia le basi ingrossate degli steli sono avvolte da una specie di manicotto di fibre reticolate, che altro non sono se non i resti delle nervature delle foglie cadute,77 il quale conferisce a queste parti un aspetto simile alla spiga di una graminacea, da cui il nome di spica nardi, o spigo nardo, con cui la pianta fu nota per secoli: in Europa, fino a tutto il Settecento, essa non era conosciuta nella sua interezza, ma solo le cosiddette spighe di nardo, ossia la parte usata in farmacopea.78 Proprio le basi ingrossate degli steli sono la parte che Aldrovandi e gli studiosi suoi contemporanei inserivano nei loro erbari, non di rado partecipando alla discussione allora in auge sulla vera natura dello spigo nardo, conclusasi oltre due secoli più tardi, a cavallo fra Settecento e Ottocento, quando i botanici inglesi, venuti a contatto con la flora himalayana, poterono per la prima volta descrivere la specie con un approccio scientifico moderno.79 Ma la prima descrizione nota risale a Plinio il Vecchio (I sec. d.C.), il quale ne parla come di un “arbusto la cui radice è pesante e grossa, ma corta, nera, fragile benché grassa; ha odore di muffa come il cipero e gusto aspro; le foglie sono piccole e crescono a gruppi. I germogli si sviluppano in spighe, perciò il nardo va famoso per il doppio dono che offre delle spighe e delle foglie” (Hist. Nat. XII, 26),80 segno che di fatto già gli antichi avevano una qualche cognizione sulla natura del nardo indiano o spigo nardo, pur se ai nostri occhi chiaramente molto vaga. Va comunque ricordato che Greci e Romani, sotto il nome di nardo, indicavano diverse piante aromatiche d’uso cosmetico e medicinale,81 ossia specie (intese in senso moderno) anche molto lontane fra loro dal punto di vista morfologico; perciò, non è del tutto sicuro che Plinio il Vecchio si riferisse davvero a N. jatamansi.

Fig. 3. Il campione di spigo nardo (Nardostachys jatamansi (D. Don) DC.) preservato nel vol. II, c. 307r, n. 1.

Dal rizoma di N. jatamansi si estrae da millenni un olio (l’olio di nardo, per l’appunto) usato in cosmesi e come componente di profumi e unguenti: le prime attestazioni d’uso sono babilonesi, dell’epoca di Hammurabi (XVIII sec. a.C.), ma il nardo ricorre più volte anche nella Bibbia come ingrediente degli unguenti più pregiati; per Greci e Romani entrava nella composizione di profumi di lusso, misture aromatiche usate nelle celebrazioni religiose, unguenti regali e numerose preparazioni medicinali.82 Tuttora gode di grande stima nella medicina ayurvedica, in cui è utilizzato contro epilessia, isteria, sincope, debolezza mentale e stress, per migliorare la crescita dei capelli e renderli più neri e lucenti.83

2.4 Il cavolo

Di questa pianta sono conservati 7 campioni, in buono o discreto stato:

- vol. III, c. 60r, n. 1: Brassica satiua, Kράμβη, Coramble Columellæ;

- vol. III, c. 61r, n. 1: Brassica arborescens Pisana (Fig. 4);

Fig. 4. Il campione di cavolo (Brassica oleracea L.) preservato nel vol. III, c. 61r.

- vol. V, c. 84r, n. 1: Brassica selenites;

- vol. VIII, c. 35r, n. 1: Brassica marucina folijs cœruleis, Brassica Cumana Dodon.;

- vol. IX, c. 119r, n. 1: Brassica marucina Theoph.;

- vol. XIV, c. 209r, n. 1: Brassica crispa Neapolitana;

- vol. XIV, c. 210r, n. 1: Brassica florida, Caulfiore uulgo, Brassica nigra Dodonæi uidetur.

Gli exsiccata, attribuiti a Brassica oleracea L., complessa e multiforme specie, risalgono al 1552 (vol. III), 1553 (vol. V), 1554 (vol. VIII), 1555–1556 (vol. IX) e 1568–1580 (vol. XIV) e provengono da Verona, Pisa, Bologna e dall’orto botanico di Padova (in quest’ultimo caso le piante in realtà sarebbero tedesche, perché derivano da semi giunti dalla Germania e fatti germinare in orto botanico).84 Del cavolo esiste un solo altro campione nell’Erbario B della Biblioteca Angelica di Roma (vol. I, c. 144r, n. 205), datato al 1550–1553:85 per certi versi, è abbastanza sorprendente che una pianta importante e di antica tradizione come questa, sia come alimento sia come farmaco, sia stata così poco raccolta dai botanici rinascimentali,86 ma d’altra parte non dobbiamo dimenticare che difficilmente nei loro erbari essi includevano specie orticole o banali. I campioni aldrovandiani, pertanto, sono fra i pochissimi del XVI secolo, almeno allo stato attuale delle conoscenze.

Del cavolo molto è stato scritto fin dall’antichità: Plinio il Vecchio lo definiva pianta miracolosa, perché i Romani, consumandone abitualmente, poterono evitare di rivolgersi ai medici per ben 600 anni;87 Pietro Andrea Mattioli scriveva che “Dissero Theofrasto, Varrone, & Plinio, che tanto odio è tra’l cauolo, & le uiti, che essendo piantato il cauolo appresso ad un pie di vigna, si discosta la uite marauigliosamente da quello”:88 in base a questa credenza, Greci ed Egizi lo ritenevano ottimo rimedio per le ubriacature. Tradizionalmente, il cavolo è sempre stato abbinato alla campagna, a una mensa umile e frugale, e numerosi sono i detti popolari ispirati dagli usi che si facevano di questa pianta.89 Oggi ne esistono molte varietà orticole, ma la specie, allo stato selvatico è del tutto diversa dall’immagine che ne abbiamo: è un piccolo alberello con fusto legnoso alto alcuni decimetri, privo di foglie, ramificato solo all’apice; le ramificazioni portano grosse foglie non di rado alquanto carnose; i fiori e i frutti sono più grandi che nelle varietà coltivate. Vive parecchi anni ed è tipica degli ambienti rupestri, spesso lungo le coste atlantiche di Spagna, Francia e Regno Unito, ma pure nel Mediterraneo, anche in posizioni esposte all’aerosol marino.90 Va detto però che le forme selvatiche nel nostro clima sono piuttosto rare, perciò difficili a osservarsi; inoltre, poiché le varietà e sottospecie di B. oleracea sono largamente interfertili, nel corso del tempo si sono generati innumerevoli ibridi, la cui distinzione è sovente assai difficile.91 Le varietà coltivate sono il frutto di un processo di selezione durato oltre 2000 anni: la coltura ebbe origine, certo indipendentemente, in più zone dell’area mediterranea al principio dell’età classica; i Greci non usavano il cavolo per alimento, mentre i Romani ne coltivavano e consumavano varietà orticole simili all’odierno cavolo nero, però non ancora ben differenziate dai ceppi selvatici. Con ogni probabilità, un centro importante per lo sviluppo della coltura fu la Gallia, giacché il nome brassica, d’uso comune in latino (attestazioni in Plauto, Catone, Varrone, Columella, Plinio il Vecchio ecc.), sembra derivare da un termine celtico92 (l’etimologia è tuttora incerta, in ogni modo).93 Alcune varietà coltivate, come il cavolo-rapa e il cavolo cappuccio, sono menzionate già nel Medioevo; il cavolfiore sul finire del XVI secolo. In definitiva, la selezione colturale consisteva nel fissare caratteri aberranti o mostruosi, dovuti a malformazioni e anomalie genetiche di singole piante, quali anormale ingrossamento del fusto, foglie arricciate, bollose o riunite in densi cespi terminali, infiorescenze raccorciate e composte di fiori abortivi, grande abbreviazione del ciclo vitale a piante bienni o annue.94

2.5 Il moly di Omero

Di questa pianta sono conservati due campioni, in ottimo stato:

- vol. I, c. 305r, n. 1: Moly Theophrasti (Fig. 5);

- vol. VI, c. 177r, n. 1: Moly Homeri. Moly liliiflorum Lobelii.

Gli exsiccata, ascritti ad Allium nigrum L., risalgono al 1551 (vol. I) e 1553 (vol. VI) e furono raccolti dall’Aldrovandi in un campo di grano a Bologna.95 Altri campioni noti sono custoditi nell’Erbario B della Biblioteca Angelica di Roma (vol. III, c. 79r, n. 778, datato al 1550–1553)96 e nell’Erbario Cesalpino (c. 224r, n. 624, datato al 1557–1563).97

Pianta citata molte volte dalle fonti classiche, fu menzionata per la prima volta da Omero nell’Odissea X, 302–306, quale antidoto indicato da Ermes a Odisseo contro la pozione che Circe somministrò ai suoi compagni per tramutarli in porci. In effetti, però, l’identificazione del moly con una pianta nota agli studiosi è da secoli una sorta di rompicapo: gli antichi non fornirono mai descrizioni precise dell’erba moly, per quanto Teofrasto (Historia Plantarum IX, 15.7) avesse sostenuto che questa pianta avesse una radice foggiata a cipolla e foglie simili a quelle della scilla marina (Charybdis maritima (L.) Speta) e crescesse sul monte Cillene (Peloponneso) e presso il fiume Peneo (Tessaglia), luoghi da sempre connessi al culto di Ermes. Dioscoride (De Materia Medica III, 46) associò il moly con la cosiddetta ruta siriaca o pègano, nota alla scienza come Peganum harmala L.; nondimeno vari studiosi credettero che il vero moly fosse in realtà la ruta (Ruta graveolens L.). Ancora nell’Ottocento la questione era oggetto di dibattito e dissertazioni erudite: in proposito aveva scritto anche Giovanni De Brignoli di Brunnhoff, professore di Botanica e Agraria all’Università di Modena e direttore dell’orto botanico modenese,98 riassumendo la storia dei tentativi d’identificazione della pianta omerica dall’Antichità all’epoca moderna. È importante ricordare, inoltre, che già nel Cinquecento i botanici concordavano nel ritenere che i diversi moly citati nelle fonti classiche fossero specie diverse di aglio. Per questo anche Aldrovandi attribuiva il nome di Moly Homeri e Moly Theophrasti a due piante di aglio, appunto A. nigrum come abbiamo visto. Interessante nondimeno la conclusione di Brignoli, il quale, dopo un accurato esame delle fonti, non prende partito su un’identificazione precisa, anzi si toglie elegantemente d’impaccio:

i botanici […] non s’avvisarono, che una pianta dotata della virtù di distruggere gl’incantesimi non può esistere. Di più chi potrà asserire che Circe sia mai esistita? chi sarà quello storico che ci sappia dire in qual secolo Ulisse regnasse? chi sarà finalmente che presti fede all’esistenza di Mercurio? Se dunque tutto è favoloso, e Circe, e Ulisse, e Mercurio, dev’essere favolosa anche la pianta del moly, ed è tempo perduto e fatica sprecata il tentar di raffrontarla ad una pianta vivente. Sarebbe lo stesso di chi si ponesse in capo di determinare botanicamente l’albero additato dalla Sibilla ad Enea presso Virgilio […] o di chi volesse conoscere il metallo e la pietra dell’anello che presso l’Ariosto Bradamante toglie a Brunello per suggerimento di Melissa, onde scioglier Rinaldo dagl’incantesimi d’Atlante o chi pretendesse conoscer l’albero d’onde il Mago, appo il Tasso, trasse la verga che consegnò ad Ubaldo ed al suo compagno per vincere gli incantesimi di Armida, e liberare lo stesso Rinaldo.

Al vero, A. nigrum è una specie mediterranea, vivente dalla Francia meridionale all’Asia Minore e al Vicino Oriente, usata come pianta ornamentale nei giardini europei e nord-americani; in Italia cresce spontanea in quasi tutte le regioni, in campi (specialmente di cereali), vigne e oliveti, fin verso i 1000 metri sul mare.99

Fig. 5. Il campione di moly d’Omero (Allium nigrum L.) preservato nel vol. I, c. 305r.

2.6 La genziana purpurea

Di questa pianta sono conservati tre campioni, in discreto stato:

- vol. III, c. 205r, n. 1: Gentiana flore purpureo (Fig. 6);

Fig. 6. Il campione di genziana purpurea (Gentiana purpurea L.) preservato nel vol. III, c. 205r.

- vol. III, c. 206r, n. 1: Gentiana flore purpureo;

- vol. X, c. 7r, n. 1: Gentiana Dioscoridis.

I tre campioni, ascritti a Gentiana purpurea L., sono datati al 1552 (vol. III) e 1557 (vol. X) e provengono dalla vetta del monte Cimone, in provincia di Modena, da Aldrovandi chiamato Alpe di Sestola o Alpi di Rio di Lunato;100 oggi la presenza della specie è nota per l’intero Appennino tosco-emiliano, benché non certo comune (è una delle entità più pregevoli dell’intera flora appenninica, dal punto di vista fitogeografico e della conservazione della natura). Trattasi di una genziana a distribuzione sudovest-europea, tipica delle alte montagne della Penisola Iberica e del sud della Francia: le popolazioni appenniniche sono al limite orientale della sua area di distribuzione. Questa bella specie, caratteristica per i grandi fiori di colore rosso scuro o porpora cupo, colpì molto Aldrovandi, il quale subito ne scrisse a Pietro Andrea Mattioli:101

nasce questa rara e divina pianta nella pianura della sommità dell’Alpi di rio di lunato, la quale pianura è longha un trar di mano e non li nasce altra herba che questa che vede l’E. V. Fa li fiori porporei in cima del caule e alchuni sino che fra tutte le foglie fanno dui fiori […], non si po negare che non sia una gentiana, fa le foglie della piantagine, la radice crassa è amara, a me mi pare più amara assai che non è quella che descrive Dioscoride,102 n’ho cavato alchune piante che havevano la radice grossissima. V. E. la potrà gustare, e così potrete giudicare della sua amarezza. L’anno passato la mostrai a ms. Lucha e a ms. Aloisio i quai mi dissero ingenuamente mai non l’haver veduta e li fu gran piacere a vederla.

In effetti, egli era stato il primo a parlarne a livello italiano: per averne ulteriori notizie occorrerà attendere il 1785, quando il botanico piemontese Carlo Allioni la menzionava nella sua Flora Pedemontana. Il binomio latino scelto da Linneo e tuttora usato (Gentiana purpurea) si rifà indirettamente al nome attribuito da Aldrovandi: il primo ad averla battezzata Gentiana purpurea era stato Caspar Bauhin, già allievo dello studioso felsineo,103 il cui Pinax Theatri Botanici, repertorio dei nomi e sinonimi di tutte le piante allora note edito nel 1623, ben conosceva lo scienziato svedese. I tre campioni aldrovandiani sono particolarmente preziosi, giacché negli altri erbari italiani del XVI secolo non esistono reperti di G. purpurea.

In generale, tutte le genziane sono specie montane o alto-montane, proprie dei boschi o, più comunemente, dei prati e delle zone aperte; caratteristico è il sapore amaro della radice, dovuto alla presenza di amarogentina, alcaloide tipico della famiglia delle Genzianacee. I principii amari contenuti nelle radici hanno ottime virtù digestive e rientrano nella composizione di numerosi liquori.

Come scritto da Sandro Pignatti, autore delle due più moderne Flore d’Italia oggi disponibili, le genziane sono specie molto belle e dalla fioritura assai vistosa e proprio perciò, purtroppo, sovente oggetto di un’insensata raccolta a scopo collezionistico;104 il trapianto è molto difficile e di rado la pianta sopravvive; la pianta stessa soffre quando il fiore sia reciso. Sono dunque specie da rispettare e ammirare nei loro ambienti,105 a maggior ragione dato che parecchie di esse sono protette in varie regioni italiane e la raccolta ne è severamente proibita.

2.7 La ruta padovana

Di questa specie si conserva un solo campione, in mediocre stato (vol. XI, c. 71r, n. 1: Ruta sylvestris), che Aldrovandi ottenne da Padova, con ogni probabilità da Pietro Antonio Michiel, direttore dell’orto botanico padovano, il quale se lo era procurato o sui Colli Euganei o in Istria.106 L’exsiccatum è datato al 1557 e ascritto ad Haplophyllum patavinum (L.) G. Don, una delle specie più rare della flora italiana, le cui uniche popolazioni oggi note a livello nazionale sono presso Arquà Petrarca. Come già visto per la genziana purpurea, anche in questo caso Aldrovandi anticipava di molto la segnalazione più antica finora conosciuta per questa specie, risalente al 1726.107 L’exsiccatum aldrovandiano è preziosissimo non solo per la sua antichità, ma anche perché unico: non esistono reperti di questa specie negli altri erbari italiani del XVI secolo.

La presenza di un campione di H. patavinum in un erbario cinquecentesco può indicare quanto fosse accurata l’esplorazione del territorio da parte degli studiosi rinascimentali e quanto fossero attenti alle specie ancora ignote o potenzialmente ignote alla scienza dell’epoca: non mancano infatti altri casi (anche in altri erbari antichi) di specie note per una o pochissime popolazioni in Italia, che però i botanici del Cinquecento sapevano bene dove trovare.108 Altrimenti, bisogna dedurne che tali specie fossero un tempo assai più comuni di quanto siano oggi e che molte popolazioni siano scomparse prima ancora d’esser state conosciute, a causa del peggioramento climatico imposto dalla cosiddetta Piccola Età Glaciale (in via approssimativa databile al periodo 1500–1850) e per la sempre più massiccia e invadente presenza umana sul territorio. In mancanza di precise indicazioni in questo senso, non possiamo tuttavia propendere per l’una o l’altra delle soluzioni prospettate: i botanici rinascimentali non si soffermano sulla rarità delle specie, con ogni probabilità perché gli studi sulla distribuzione delle piante sul globo ancora non esistevano (tuttora, in ogni caso, il concetto di rarità di una specie non ha una definizione univoca).

Specie a corotipo illirico, un tempo più diffusa (seppure sempre confinata ai Colli Euganei, per quanto si sa oggi), la sua presenza sul territorio italiano va ritenuta relittuale e a rischio di scomparsa, a causa della distruzione dell’habitat dovuta alle cave aperte negli ultimi tempi per l’estrazione della trachite euganea come materiale da costruzione; non a caso, gli individui osservabili sono di regola sterili,109 il che pregiudica ulteriormente la già precaria sopravvivenza delle pochissime popolazioni oggi note. Di conseguenza, H. patavinum è soggetto a protezione assoluta, pertanto è rigorosamente proibita ogni forma di raccolta.

H. patavinum è l’unica specie della flora italiana che trae il nome dalla città di Padova.110

3. Conclusioni

Si è cercato di fornire un breve excursus di alcune delle specie più notevoli presenti nell’erbario di Aldrovandi che, malgrado contenga un numero tutto sommato modesto di reperti (se visto al lume odierno), non cessa di fornire informazioni preziose sulla storia delle piante e dello studio della botanica nel secondo Cinquecento. Benché di molti campioni si conosca un’identificazione in chiave moderna, alcuni, purtroppo, si sono deteriorati al punto da essere difficilmente riconoscibili coi metodi attuali, mentre di altri resta solo l’impronta sul foglio. Il progresso scientifico certo metterà a disposizione metodi per dare un nome anche a queste piante,111 il che renderà la collezione aldrovandiana ancora più pregiata e importante fra quelle di epoca rinascimentale tuttora esistenti. Per adesso, non resta che proseguire nello studio dei manoscritti, rimasti in grandissima parte inediti (quasi 400 volumi di appunti, annotazioni, schedari, cataloghi, liste di specie, lettere, tracce di lezioni, veri e propri saggi… di mano dell’autore o di alcuni suoi scrivani, non di rado la seconda moglie Francesca Fontana),112 e rettificare ove possibile le località di raccolta, come già ammoniva Soldano.113 Pur se difficile, questo lavoro risulta di grande utilità e, soprattutto, è necessario per garantire un passo in avanti verso l’esattezza dei dati insiti nelle raccolte aldrovandiane, da lui concepite come strumento di studio attivo e che come tali meritano d’essere usate anche oggi. Solo così potremo, per dirla con le parole di Saint-Lager,114 botanico francese dell’Ottocento, rendere il giusto, benché tardivo, omaggio “al raccoglitore infaticabile che, per il suo zelo disinteressato per la scienza, ha ottenuto a buon diritto l’ammirazione dei suoi contemporanei e merita di occupare un posto eminente nel catalogo dei naturalisti degni di memoria”.


1 Si ringraziano la Biblioteca Universitaria di Bologna (in particolare le dott.sse Martina Caroli e Silvia Tebaldi), per avere concesso l’autorizzazione alla riproduzione delle immagini dei campioni dell’Erbario Aldrovandi, e la dott.ssa Claudia Giobbio (Biblioteca Angelica, Roma), per avere fornito gli esatti estremi di alcuni campioni dell’Erbario B della Biblioteca Angelica di Roma citati nel testo. Per gli spunti e le idee offerti è doveroso ricordare Marco Cornaglia (PhD, Dipartimento di Beni Culturali – Università di Bologna), Carlotta Travaglini (borsista di ricerca, Dipartimento di Beni Culturali – Università di Bologna), Sara Obbiso (dottoranda, Dipartimento di Filologia Classica e Italianistica – Università di Bologna), Valeria Saggion (studentessa, Dipartimento di Beni Culturali – Università di Bologna) e Giulia Cardoni (dottoranda, Dipartimento di Beni Culturali – Università di Bologna). Si ringrazia Noemi Di Tommaso (PhD, Dipartimento di Filosofia e Comunicazione – Università di Bologna) per il proficuo scambio di opinioni e informazioni sull’epistolario di Aldrovandi e per la rilettura critica del manoscritto. Si ringrazia infine Giovanna Bosi (PhD, Dipartimento di Scienze della Vita – Università degli Studi di Modena e Reggio Emilia) per i consigli, i suggerimenti e la rilettura critica del manoscritto.

2 Giambattista Vai, “Aldrovandi’s Will: introducing the term ‘Geology’ in 1603”, in Four Centuries of the Word Geology: Ulisse Aldrovandi 1603 in Bologna, a cura di Giambattista Vai, Walter Cavazza (Argelato - BO: Minerva Edizioni, 2003), 65–112; Fausto Morini, “La Syntaxis plantarum di U. Aldrovandi”, in Intorno alla vita e alle opere di Ulisse Aldrovandi, a cura di Antonio Baldacci et al. (Bologna: Libreria Treves di L. Beltrami, 1907), 195–223.

3 Giuseppe Montalenti, “Ulisse Aldrovandi”, in Enciclopedia Italiana Treccani – Dizionario Biografico degli Italiani, II, 1960, https://www.treccani.it/enciclopedia/ulisse-aldrovandi_%28Dizionario-Biografico%29/.

4 Sandra Tugnoli Pàttaro, Metodo e sistema delle scienze nel pensiero di Ulisse Aldrovandi (Bologna: Cooperativa Libraria Universitaria Editrice, 1981), 65–94; Ead., “Profilo scientifico di Ulisse Aldrovandi”, in L’erbario dipinto di Ulisse Aldrovandi: un capolavoro del Rinascimento, a cura di Antonella Maiorino et al. (Molteno - LC: Ace International publisher of Flortecnica and Data & Fiori, 1995), 9–32.

5 Noemi Di Tommaso, “Censimento preliminare della corrispondenza di Ulisse Aldrovandi”, Aldrovandiana 1, no. 2 (2022): 29–174.

6 Giuseppe Olmi, “‘Molti amici in varij luoghi’: Studio della natura e rapporti epistolari nel secolo XVI”, Nuncius 6 (1991): 3–33; Giuseppe Olmi, L. Tongiorgi Tomasi, De piscibus. La bottega artistica di Ulisse Aldrovandi e l’immagine naturalistica, a cura di Enzo Crea (Roma: Edizioni dell’Elefante, 1993).

7 Si parla a tal proposito di “repubblica delle lettere” per indicare il clima di scambio dei saperi e di collaborazione fra studiosi, inseriti in una densa rete di contatti estesa non di rado ad ampie parti d’Europa (Angela Nuovo, “Et amicorum: costruzione e circolazione del sapere nelle biblioteche private del Cinquecento”, in Libri, biblioteche e cultura degli ordini regolari nell’Italia moderna attraverso la documentazione della Congregazione dell’Indice. Atti del convegno internazionale, Macerata, 30 maggio-1 giugno 2006, a cura di Rosa Marisa Borraccini, Roberto Rusconi (Città del Vaticano: Biblioteca Apostolica Vaticana, 2006), 105–127; Maria Gioia Tavoni, “Nel laboratorio di Ulisse Aldrovandi: un indice manoscritto e segni di lettura in un volume stampa”, Histoire et Civilisation du Livre 6 (2010): 65–78). Alle lettere, vero e proprio vettore di conoscenza (diretta o di fonte certa), non di rado erano acclusi uno o più oggetti naturali dei quali si discuteva nella corrispondenza: cfr. Noemi Di Tommaso, “La natura di carta: l’epistolario di Ulisse Aldrovandi (1522-1605)” (tesi di dottorato, Università di Bologna, 2023), cap. II.

8 Giovanni Cristofolini, “Luca Ghini a Bologna: la nascita della scienza moderna”, Museologia Scientifica 8 (1992): 207–221; Dietrich von Engelhardt, “Luca Ghini (1490-1556) il padre fondatore della botanica moderna nel contesto dei rapporti scientifici europei del sedicesimo secolo”, Annali del Museo Civico di Rovereto, Sezione di Archeologia, Storia e Scienze Naturali 27 (2011): 227–246.

9 Già nel 1492 Nicolò Leoniceno ammoniva gli studiosi dei numerosi errori nell’identificazione e denominazione delle piante commessi da Plinio il Vecchio, sino allora autorità scientifica difficilmente discutibile. Cfr. Giovanni Cristofolini, “The role of plant taxonomy and nomenclature in Leoniceno’s break with Plinius”, Webbia. Journal of Plant Taxonomy and Geography 74, no. 1 (2019): 1–14; Id., “Nicolò Leoniceno – il medico umanista alla nascita della Botanica moderna”, Notiziario della Società Botanica Italiana, 4, no. 1 (2020): 93–98.

10 Tali studi, che si svilupperanno compiutamente nel XVIII e XIX secolo in particolar modo, presero l’avvio da alcune annotazioni geografiche di Mattioli, che talvolta riferiva le località di osservazione delle piante citate. I suoi commenti all’opera di Dioscoride stimolarono la ricerca in natura delle piante da questi menzionate, peraltro difficile in Europa centro-settentrionale perché si trattava in molti casi di specie mediterranee; tutto ciò ebbe il merito di spingere all’esplorazione floristica del territorio in vari Paesi dell’Europa Centrale. Cfr. Alicja Zemanek, “L’influenza dei ‘Commentarii’ in Polonia”, in Pietro Andrea Mattioli (Siena 1501 - Trento 1578). La vita, le opere, con l’identificazione delle piante, a cura di Sara Ferri (Ponte San Giovanni - PG: Quattroemme, 1997), 105–110. Cfr. anche Vera Credaro, “Un inedito sui bagni di Bormio in Valtellina”, in Pietro Andrea Mattioli (Siena 1501 - Trento 1578). La vita, le opere, con l’identificazione delle piante, a cura di Sara Ferri (Ponte San Giovanni - PG: Quattroemme, 1997), 111–118.

11 Sara Ferri, “‘Il ‘Dioscoride’, i ‘Discorsi’, i ‘Commentarii’: gli amici e i nemici”, in Pietro Andrea Mattioli (Siena 1501 - Trento 1578). La vita, le opere, con l’identificazione delle piante, a cura di Sara Ferri (Perugia: Quattroemme, 1997), 15–48.

12 Il problema era anche di ordine pratico: se gli autori classici fino allora seguiti (in primis Dioscoride e Plinio il Vecchio) avevano attinto a fonti greche, a queste si doveva in realtà risalire per ben identificare le piante da somministrare ai pazienti e preparare correttamente i farmaci. Né ci si poteva fidare dell’uso comune, come già fu prassi per tutto il Medioevo, per stabilire quale pianta rispondesse a un certo nome, giacché le basi su cui si fondava la conoscenza dei semplici erano oltremodo imprecise, mancando negli autori antichi descrizioni attendibili delle specie citate, che ne permettessero un agevole – e soprattutto univoco – riconoscimento. Cfr. Cristofolini, “Nicolò Leoniceno”, 93–98. Alcuni tentativi di descrizioni morfologiche accurate, di fatto, furono compiuti già nel XII secolo (si pensi al De simplici medicina di Matteo Plateario o al De vegetabilibus di Alberto Magno, ad esempio), ma si tratta nel complesso di casi sporadici. Fino a tutto il Quattrocento, l’illustrazione botanica rimase condizionata più o meno fortemente dall’idealizzazione della figura, che doveva suggerire le virtù terapeutiche più che i caratteri utili a un’identificazione certa. La conoscenza delle piante, nel Medioevo, si maturava solo per via empirica, grazie agli anni di apprendistato nelle botteghe degli speziali o presso farmacisti o frati erboristi, ed era pertanto assai soggetta a errori o male interpretazioni del singolo. Cfr. Severino Viola, Piante medicinali e velenose della flora italiana (Novara: Edizioni Artistiche Maestretti, Istituto Geografico De Agostini, 1978), IX–X; Guido Moggi, “Origine ed evoluzione storica dell’erbario”, in Herbaria. Il grande libro degli erbari italiani, a cura di Fabio Taffetani (Firenze: Nardini Editore, 2012), 3–32.

13 Cfr. Andrea Battistini, “Da Argo alla lince. Il ruolo della vista nella cultura scientifica del Seicento”, in Ulisse Aldrovandi. Libri e immagini di Storia naturale nella prima Età moderna, a cura di Giuseppe Olmi e Fulvio Simoni (Bologna: Bononia University Press, 2018), 1–8.

14 Antonella Maiorino et al., “L’importanza scientifica degli erbari nel XVI secolo, l’iconografia”, in L’erbario dipinto di Ulisse Aldrovandi: un capolavoro del Rinascimento, a cura di Antonella Maiorino et al. (Molteno - LC: Ace International publisher of Flortecnica and Data & Fiori, 1995), 33–60.

15 Cfr. ad es. Pia Meda, Guida agli Orti e Giardini Botanici (Milano: Editoriale Giorgio Mondadori, 1996); Jan De Koning, “Botanica nel Cinquecento”, Museologia Scientifica 14, no. 1 (1998): 25–39.

16 Menzioni di piante essiccate per compressione si trovano nel mito di Zefiro e Flora; notizie di erbari intesi già come raccolte di piante secche (benché probabilmente non pensate per scopi scientifici, né paragonabili alle collezioni allestite nei secoli successivi) risalirebbero alla metà del Trecento e un codice databile al 1480 circa, conservato a Firenze alla Biblioteca Nazionale (ms. B. V.24.), sarebbe forse il più antico erbario giunto fino a oggi. Cfr. Guido Moggi, “L’erbario. Origine, evoluzione storica, significato”, in Erbari e iconografia botanica. Storia delle collezioni dell’Orto Botanico dell’Università di Torino, a cura di Franco Montacchini (Torino: U. Allemandi & C., 1986), 24–28; Sergio Toresella, Marisa Battini, “Gli erbari a impressione e l’origine del disegno scientifico”, Le Scienze 239 (1988): 64–78; Lucia Tongiorgi Tomasi, “Dall’essenza vegetale agglutinata all’immagine a stampa: il percorso dell’illustrazione botanica nei secoli”, Museologia Scientifica 8 (1992): 271–295; Maria Adele Signorini, “Piante e fiori essiccati, tra antiche leggende ed erbari scientifici”, Atti dei Georgofili ser. VII, 43 (1996): 339–357.

17 Si vedano ad esempio Ernst Heinrich Friederich Meyer, Geschichte der Botanik: Studien (Königsberg: Verlag der Gebrüder Bornträger, 1854-1857), 4 voll.; Jules Camus, “Historique des premiers herbiers”, Malpighia 9 (1895): 283–314; Giovanni Battista De Toni, “Sull’origine degli erbari”, Atti della Società dei Naturalisti e Matematici di Modena, ser. IV, 8 (1907): 18–22; Alberto Chiarugi, “Nel quarto centenario della morte di Luca Ghini”, Webbia. Journal of Plant Taxonomy and Geography 13 (1957): 1–14.

18 Alessandro Tosi, “Acconciare, seccare, dipingere: pratiche di rappresentazione della natura tra le ‘spigolature’ aldrovandiane”, in Ulisse Aldrovandi. Libri e immagini di Storia naturale nella prima Età moderna, a cura di Giuseppe Olmi e Fulvio Simoni (Bologna: Bononia University Press, 2018), 54. Ricordiamo che Linneo stesso, due secoli più tardi, nella sua Philosophia Botanica scriverà “Herbarium praestat omni icone, necessarium omni Botanico”, ribadendo l’imprescindibilità della raccolta e studio dei campioni per avere cognizione certa delle specie in esame.

19 Riccardo Maria Baldini et al., “The extant herbaria from the Sixteenth Century: a synopsis”, Webbia. Journal of Plant Taxonomy and Geography 77, no. 1 (2022): 23–33. Gli erbari rinascimentali qui censiti sono 15, ma quelli prodotti all’epoca erano con ogni probabilità ben più numerosi: ricordiamo ad esempio, fra le raccolte non descritte da questi Autori, l’erbario di John Falconer, databile agli anni 1544-1547 (ossia al suo periodo di permanenza a Ferrara), andato perduto, quello di Francesco Calzolari, a lui donato da Ghini nel 1555 e pure perduto, e quello attribuito a Petrus Cadé, datato al 1566, preservato a Leida. Si vedano Cristofolini, “Luca Ghini a Bologna”, 214; Maarten Joost Maria Christenhusz, “The Hortus Siccus (1566) of Petrus Cadé: A description of the oldest known collection of dried plants made in the Low Countries”, Archives of Natural History 31, no. 1 (2004): 30–43; Moggi, “Origine ed evoluzione storica dell’erbario”, 16–21.

20 Ne fa fede, ad esempio, l’abbondanza di nomi che accompagnano molti exsiccata, quasi un prontuario dei nomi al tempo in uso per designare le specie erborizzate: sono riferiti sia quelli riportati dai principali autori europei (Fuchs, Trago, Cordo, Dodoneo, Clusio, Mattioli ecc.), sia quelli usati dagli autori antichi più stimati (Teofrasto, Plinio il Vecchio, Dioscoride e Galeno), sia quelli italiani allora adoperati correntemente, sia – in alcuni casi – anche denominazioni di uso locale.

21 Cristofolini, “Luca Ghini a Bologna”, 220.

22 Umberto Mossetti, “Catalogo dell’Erbario di Ulisse Aldrovandi: i campioni ritrovati negli Erbari di Giuseppe Monti e Ferdinando Bassi”, Webbia. Journal of Plant Taxonomy and Geography 44, no. 1 (1990): 151–164.

23 Adriano Soldano, “L’erbario di Ulisse Aldrovandi – Volumi I e II”, Atti dell’Istituto Veneto di Scienze, Lettere ed Arti, Classe di Scienze fisiche, matematiche e naturali 158, no. 1 (2000): 1–246; Id., “L’erbario di Ulisse Aldrovandi – Volumi III e IV”, Atti dell’Istituto Veneto di Scienze, Lettere ed Arti, Classe di Scienze fisiche, matematiche e naturali 159, no. 1 (2001): 1–215; Id., “L’erbario di Ulisse Aldrovandi – Volumi V-VI-VII”, Atti dell’Istituto Veneto di Scienze, Lettere ed Arti, Classe di Scienze fisiche, matematiche e naturali 160, no. 1 (2002): 1–248; Id., “L’erbario di Ulisse Aldrovandi – Volumi VIII-IX-X-XI”, Atti dell’Istituto Veneto di Scienze, Lettere ed Arti, Classe di Scienze fisiche, matematiche e naturali 161, no. 1 (2003): 1–241; Id., “L’erbario di Ulisse Aldrovandi – Volumi XII-XIII-XIV”, Atti dell’Istituto Veneto di Scienze, Lettere ed Arti, Classe di Scienze fisiche, matematiche e naturali 162, no. 1 (2004): 1–248; Id., “L’erbario di Ulisse Aldrovandi – Volume XV”, Atti dell’Istituto Veneto di Scienze, Lettere ed Arti, Classe di Scienze fisiche, matematiche e naturali 163, no. 1 (2005): 1–171.

24 La località di provenienza dei campioni è annotata non sul foglio d’erbario nel cartellino apposito, come si usa oggi, bensì nei cataloghi manoscritti dell’erbario stesso, redatti da Aldrovandi, tuttora inediti in massima parte. La scoperta di tali indicazioni, avvenuta in modo puramente fortuito negli anni Novanta del Novecento, si deve a Soldano: prima della sua opera, solo di poche decine di campioni si conosceva il sito di provenienza, per di più in modo alquanto vago (cfr. Soldano, “L’erbario I-II”, 2–4). In realtà, come sopra ricordato, anche altri studiosi contemporanei riferivano i luoghi di raccolta od osservazione delle loro piante: la differenza è che costoro lo facevano in modo saltuario, forse legato più al caso particolare in esame che a una vera esigenza di studio; Aldrovandi, almeno per i reperti vegetali, lo faceva in modo pressoché sistematico, obbedendo quindi a una logica di catalogazione e conoscenza che permettesse anche ad altri di ritrovare ciò ch’era stato descritto, esigenza viva in tutta la sua opera e già più volte messa in luce, ispirata non solo dalle tendenze scientifiche della sua epoca, ma anche – ovviamente – dalla conoscenza delle opere di Aristotele e Teofrasto. Cfr. ad es. Ulisse Aldrovandi, Discorso naturale di Ulisse Aldrovandi, philosopho e medico, nel quale si ragiona in generale del suo museo et delle fatiche da lui usate per raunare da varie parti del mondo, quasi in theatro di natura, tutte le cose che in quello sono; et brevemente si discrive il modo di potersi raccorre insieme facilmente da ciascuno tutte le cose sublunari, come piante, animali et varie cose minerali; et insiem tocca il modo di scoprir la cognitione d’alcuni medicamenti incerti e dubbii con non poca utilità non solo de medici, ma d’ogn’altro studioso (Biblioteca Universitaria di Bologna, Fondo Aldrovandi, ms. 91, cc. 503r-559r, 1572-1573); Sandra Tugnoli-Pàttaro, Metodo e sistema delle scienze nel pensiero di Ulisse Aldrovandi (Bologna: Cooperativa Libraria Universitaria Editrice, 1981); Marie-Élisabeth Boutroue, “Le cabinet d’Ulisse Aldrovandi et la construction du savoire”, in Curiosité et cabinets de curiosités, a cura di Pierre Martin e Dominique Moscond’hui (Neuilly: Atlande, 2004), 43–63.

25 Andrea Batelli, “Seconda contribuzione alla flora Umbra”, Annali dell’Università Libera di Perugia 2, no. 1 (1886): 139.

26 Giovanna Bosi et al., “On the trail of date-plum (Diospyros lotus L.) in Italy and its first archaeobotanical evidence”, Economic Botany 71, no. 2 (2017): 133–146; Giovanna Bosi et al., “Brassica and Sinapis seeds in medieval archaeological sites: an example of multiproxy analysis for their identification and ethnobotanical interpretation”, Plants 11, no. 16 (2022): 2100; Chiara Beatrice Vicentini et al., “‘Spigo nardo’: from the Erbario Estense a possible solution for its taxonomical attribution”, Rendiconti Lincei. Scienze fisiche e naturali 29, no. 4 (2018): 909–921; Chiara Beatrice Vicentini et al., “Tobacco in the Erbario Estense and other Renaissance evidence of the Columbian taxon in Italy”, Rendiconti Lincei. Scienze fisiche e naturali 31, no. 4 (2020): 1117–1126.

27 Delle specie appresso elencate, in realtà, esistono alcuni campioni anche in erbari coevi (Erbario B della Biblioteca Angelica di Roma – 1550-1553) o appena successivi (Erbario Cesalpino – 1557-1563, Erbario En Tibi – 1558), ma poiché molti degli exsiccata aldrovandiani si trovano nei volumi I e II, datati al 1551, la priorità spetta all’Erbario Aldrovandi. Per maggiori dettagli si rimanda al testo relativo alle singole specie.

28 Vicentini et al., “Tobacco”, 1117–1126.

29 Bosi et al., “On the trail of date-plum”, 133–146.

30 Vicentini et al., “Spigo nardo”, 909–921.

31 Bosi et al., “Brassica and Sinapis seeds”, 1–25.

32 Si riporta anche questo caso – senza pretesa di completezza – perché molto interessante dal punto di vista storico e mitologico; si badi però che l’identificazione del moly con una specie oggi riconosciuta dalla scienza è tuttora controversa ed esige una complessa ricerca multidisciplinare per essere definitivamente chiarita.

33 Nell’Erbario Aldrovandi è conservato un campione di pomodoro (Solanum lycopersicum L.), di provenienza tuttora ignota: vol. I, c. 368r, no. 1: “Pomum amoris. Mali insani species. Tembal quibusdam”. Di S. lycopersicum esiste un campione anche nell’Erbario B della Biblioteca Angelica di Roma (vol. III, c. 49r, n. 722: “Malus insana, Mandragorae species, Poma amoris”) e uno nell’Erbario En Tibi (c. 179r, n. 294: “Salunca, Puma amoris”).

34 Nell’Erbario Aldrovandi sono conservati 5 campioni di melanzana (Solanum melongena L.), 4 di provenienza ignota e uno d’origine cretese, inviatogli grazie a Pietro Antonio Michiel, direttore dell’Orto Botanico di Padova: vol. I, c. 323r, n. 1: “Mala insana alba”; vol. I, c. 324r, n. 1: “Mala insana purpurea”; vol. VI, c. 159r, n. 1: “Mala insana spinosa, Melongena potius”; vol. IX, c. 24r, n. 1: “Mala insana alia”; vol. IX, c. 43r, n. 1: “Mala insana alba”. Di S. melongena esistono due campioni anche nell’Erbario B della Biblioteca Angelica di Roma (vol. III, c. 49r, n. 723: “Malus insana longa purpurea, Mandragorae species, Melanzane pavonazze vulgo”; vol. III, c. 49r, n. 724: “Malus insana longa alba, Mandragorae species, Melanzane bianche”) e uno nell’Erbario En Tibi (c. 275r, n. 435: “Mala insana”).

35 Nell’Erbario Aldrovandi sono conservati tre campioni d’olivo: vol. I, c. 359r, n. 1: “Oliva sativa” [= Olea europaea L.]; vol. I, c. 360r, n. 1: “Olivastrum” (= O. europaea var. oleaster); vol. IX, c. 151r, n. 1: “Oliva sativa” [= O. europaea]. Il primo e il terzo provengono dall’agro bolognese, il secondo dai monti di Pistoia. Altri due campioni sono nell’Erbario B della Biblioteca Angelica di Roma: vol. III, c. 121r, n. 867: “Olea sativa [= O. europaea] e vol. III, c. 122r, n. 868: “Oleaster, Olea syl.” [= O. europaea var. oleaster]. La coltura dell’olivo nel Bolognese ha una storia lunga e complessa, solo in parte nota, della quale restano tracce in piante secolari di alcuni poderi dell’area collinare periurbana e della valle dell’Aposa. Cfr. http://olivisecolari.ibimet.cnr.it/index.php/lolivicoltura-in-emilia-romagna/cenni-storici/gli-olivi-nella-collina-di-bologna/ (ultimo accesso 2 novembre 2022).

36 Nell’Erbario Aldrovandi sono conservati due campioni di castagno (Castanea sativa Mill.), dei quali però non si conoscono le località di raccolta: vol. I, c. 107r, n. 1: “Castanea”; vol. V, c. 155r., n. 2: “Castanea, Glans Sardiana, Glans Jovis” (quest’ultimo campione consta di un frutto da cui s’è sviluppato il primo fusto). Di C. sativa esiste un solo altro campione nell’Erbario B della Biblioteca Angelica di Roma (vol. I, c. 175r, n. 244: “Castanea”). Fra i tanti, della pianta parlano anche Dodoneo nel 1554 (Cruijdeboeck, 782–783) e Mattioli nel 1568 (Discorsi, 228–229).

37 Nell’Erbario Aldrovandi sono conservati due campioni di mais (Zea mays L.): vol. I, c. 192r, n. 1: “Frumentum turcicum luteum”; vol. XIII, c. 193r, n. 1: “Maizi sive frumenti Indici aut Turcici spica seu pannicula inutilis” (quest’ultimo proveniente da Malines per il tramite di Jan van Brancion, corrispondente belga dell’Aldrovandi). Non si conoscono campioni in altri erbari coevi.

38 Baldini et al., “The extant herbaria”, 23–33.

39 Soldano, “L’erbario XV”, 83; Sandro Pignatti et al., Flora d’Italia, II ed. (Bologna: Edagricole di New Business Media, 2017-2019), 4 voll.; Fabrizio Bartolucci et al., “An updated checklist of the vascular flora native to Italy”, Plant Biosystems 152, no. 2 (2018): 179–303.

40 Antonio Bertoloni, Flora Italica sistens plantas in Italia et in insulis circumstantibus sponte nascentes (Bononiae: ex typographaeo Richardi Masii sumptibus auctoris, 1833-1854), 10 voll.

41 Soldano, “L’erbario XV”, 83.

42 Dopo quelli di Soldano, c’è una sostanziale assenza di studi prettamente botanici sull’Erbario Aldrovandi.

43 Soldano, “L’erbario XII-XIII-XIV”, 220–221.

44 Jules Camus, Otto von Penzig, “Illustrazione dell’erbario estense”, Atti della Società dei Naturalisti e Matematici di Modena 19 (1885): 14–57.

45 Giovanni Battista Marini Bettolo, “La Loggia di Psiche: una delle prime testimonianze dell’introduzione di piante americane in Europa”, Rendiconti Lincei. Scienze Fisiche e Naturali 3, no. 2 (1992): 163–172. https://doi.org/10.1007/BF03002973.

46 Lucia Paoli, Il tabacco in Toscana: in un manoscritto del Cinquecento le proprietà curative della divina erba sperimentate a Lisbona da Jean Nicot (Firenze: Angelo Pontecorboli Editore, 2019).

47 Charles C. Mann, 1493. Uncovering the New World Columbus Created (New York: Knopf Publishing Group, 2011).

48 Biblioteca Universitaria di Bologna, Fondo Ulisse Aldrovandi, ms. 125. Di questo Pucher non si conosce altro, al momento.

49 Ibid., ms. 38, II, vol. 2, lett. 3-5-1567. Il Salviani (1514-1572) era un esperto di animali acquatici (sua è infatti l’Aquatilium animalium historiae, del 1554); fu il primo a coltivare tabacco a Roma e, non avendo potuto trovare notizie di dettaglio su questa pianta, la battezzò Salviana. Cfr. Soldano, “L’erbario XII-XIII-XIV”, 117.

50 Soldano, “L’erbario XV”, 82.

51 Leonhart Fuchs, De historia stirpivm commentarii insignes, maximis impensis et vigiliis elaborati, adiectis earvndem vivis plusqvam quingentis imaginibus, nunquam antea ad naturæ imitationem artificiosius effictis & expressis (Basileæ: In officina Isingriniana, 1542). Questo autore, oltre che del tabacco, è il primo illustratore d’Europa anche d’altre specie americane, fra cui mais, patata e zucca.

52 Rembert Dodoens, Cruijdeboeck, in den welcken die gheheele historie, dat es Tgheslacht, tfatsoen, naem, natuere, cracht ende werckinghe, van den Cruyden, niet alleen hier te lande wassende, maer oock van den anderen vremden in der Medecijnen oorboorlijck, met grooter neersticheyt begrepen ende verclaert es, met der seluer Cruyden natuerlick naer dat leuen conterfeytsel daer by ghestelt (Antverpiæ: ed. Jan van der Loe, 1554), III, 89, tav. 481 (sub Hyoscyamus luteus). Il primo campione d’erbario europeo di Nicotiana rustica è conservato nell’erbario di Leonhard Rauwolf, datato al 1560-1563 e raccolto in Italia: cfr. Anastasia Stefanaki et al. “The early book herbaria of Leonhard Rauwolf (S. France and N. Italy, 1560–1563): new light on a plant collection from the ‘golden age of botany’”, Rendiconti Lincei. Scienze Fisiche e Naturali 32 (2021): 449–461. https://doi.org/10.1007/s12210-021-01012-1.

53 Nicolás Bautista Monardes Alfaro, Segunda parte del libro, de las cosas qve se traen de nuestras Indias occidentales, que siruen al vso de medicina. Do se trata del Tabaco, y de la Sassafras: y del Carlo Sancto, y de otras muchas yeruas y Plantas, Simientes y Licores: que agora nueuamente han venido de a quellas partes, de grandes virtudes, y marauillosos effectos (Seuilla: en casa Alonso Escriuano, Impressor, 1571), 4–26; Jacques Gohori, Instrvction svr l’herbe Petvm ditte en France l’Herbe de la Royne ou Medicée: Et sur la racine Mechiocan principalement (auec quelques autres Simples rares & exquis) exemplaire à maniere philosophiquement tous autres Vegetaux (Paris: Galiot du Pré, Libraire iuré, 1572), 4–16.

54 Castore Durante, Herbario Nvovo di Castore Dvrante medico, et cittadino romano (Roma: Iacomo Bericchia, & Iacomo Tornierij, 1585), 227–229.

55 Marini Bettolo, “La Loggia di Psiche”, 163–172.

56 Vicentini et al., “Tobacco”, 1117–1126.

57 AA.VV., Dizionario delle Scienze Naturali nel quale si tratta metodicamente dei differenti esseri della natura, considerati o in loro stessi secondo lo stato attuale delle nostre cognizioni, o relativamente all’utilità che ne può risultare per la medicina, l’agricoltura, il commercio, e le arti (Firenze: V. Batelli e comp., 1846), XVI, 202–203.

58 François Victor Merat, Adrien Jacques De Lens, Dizionario Universale di Materia medica e di Terapeutica generale, contenente la descrizione e l’uso di tutti i medicamenti conosciuti nelle diverse parti del mondo. Prima Versione Italiana (Venezia: Girolamo Tasso edit. tip. calc. litog. lib. e fonditore, 1837), II, 430–440.

59 Soldano, “L’erbario I-II”, 6–7; Id., “L’erbario III-IV”, 1–2; Id., “L’erbario V-VI-VII”, 1–2.

60 Emilio Chiovenda, “Francesco Petrollini, botanico del secolo XVI”, Annali di Botanica (Roma) 7 (1909): 339–447; Bosi et al., “On the trail of date-plum”, 133–146.

61 Anastasia Stefanaki et al., “The En Tibi herbarium, a 16th century Italian treasure”, Botanical Journal of the Linnean Society 187, no. 3 (2018): 397–427. https://doi.org/10.1093/botlinnean/boy024; Anastasia Stefanaki et al., “Breaking the silence of the 500-year-old smiling garden of everlasting flowers: The En Tibi book herbarium”, PloS ONE 14, no. 6 (2019): e0217779. https://doi.org/10.1371/journal.pone.0217779.

62 Teodoro Caruel, Illustratio in hortum siccum Andreae Caesalpini (Florentiae: Le Monnier, 1858), 26.

63 Bosi et al., “On the trail of date-plum”, 133–146; Caruel, Illustratio, 26. La prima trattazione a noi nota della pianta è di Plinio il Vecchio (Hist. Nat. XVI, 30, ma anche in libri successivi), che però ne dà una descrizione confusa e fuorviante.

64 Pietro Andrea Mattioli, Commentarii in sex libros Pedacii Dioscoridis Anazarbei de Medica materia (Venetiis: Officina Valgrisiana, 1565), 255–258.

65 Antonio Targioni Tozzetti, Cenni storici sull’introduzione di varie piante nell’agricoltura ed orticoltura toscana (Firenze: Tipografia Galileiana, 1853), 226–229.

66 Mario Ferrari, Danilo Medici, Alberi e arbusti in Italia (Bologna: Edagricole, 1998), 740–741; Roberto Rizzieri Masin, Silvio Scortegagna, “Flora alloctona del Veneto centro-meridionale (province di Padova, Rovigo, Venezia e Vicenza - Veneto - NE Italia)”, Natura Vicentina 15 (2012): 5–54.

67 Omero, Odissea IX, 82–104.

68 Peter Bernhardt, Gods and goddesses in the garden: Greco-Roman mythology and the scientific names of plants (Piscataway, New Jersey: Rutgers University Press, 2008).

69 Kouros Khoshbakht, Karl Hammer, “Savadkouh (Iran), an evolutionary centre for fruit trees and shrubs”, Genetic Resources and Crop Evolution 53 (2006): 641–651. https://doi.org/10.1007/s10722-005-7467-8.

70 Ben-Erik van Wyk, Food plants of the world – An illustrated guide (Portland - Oregon: Timber Press, 2005).

71 F. Ahmet Ayaz et al., “Changes in phenolic acid contents of Diospyros lotus L. during fruit development”, Journal of Agricultural Food Chemistry 45 (1997): 2539–2541. https://doi.org/10.1021/jf960741c.

72 Zhengrong Luo, Renzi Wang, “Persimmon in China: Domestication and traditional utilizations of genetic resources”, Advances in Horticultural Science 22, no. 4 (2008): 239–243. https://doi.org/10.1400/100648; Muhammad Azam Khan et al., “An ethnobotanical inventory of Himalayan region Poonch Valley Azad Kashmir (Pakistan)”, Ethnobotany Research & Applications 8 (2010): 107–123; Uppuluri Venkata Mallavadhani et al., “Pharmacology and chemotaxonomy of Diospyros”, Phytochemistry 49, no. 4 (1998): 901–951. https://doi.org/10.1016/s0031-9422(97)01020-0.

73 Soldano, “L’erbario I-II”, 187.

74 Vicentini et al., “Spigo nardo”, 909–921; Chiovenda, “Francesco Petrollini”, 339–447; Stefanaki et al., “Breaking the silence”, 1–21; Camus e Penzig, “Erbario Estense”, 14–57.

75 Vicentini et al., “Spigo nardo”, 909–921.

76 Focko Weberling, “Monographie der Gattung Nardostachys grandiflora DC. (Valeriananceae)”, Botanische Jahrbücher für Systematik, Pflanzengeschichte und Pflanzengeographie 99 (1978): 188–221; Subodh Airi et al., “Assessment of availability and habitat preference of Jatamansi, a critically endangered medicinal plant of west Himalaya”, Current Science 79, no. 10 (2000): 1467–1470; Rajendra Singh Chauhan, Mohan Chandra Nautiyal, “Commercial viability of cultivation of an endangered medicinal herb Nardostachys grandiflora DC. at three different agroclimatic zones”, Current Science 89, no. 9 (2005): 1481–1488.

77 David Don, Prodromus Floræ Nepalensis (Londini: J. Gale, 1825), 159–160; Deyuan Hong et al., “Valerianaceae”, in Flora of China. Cucurbitaceae through Valerianaceae, with Annonaceae and Berberidaceae, XIX, a cura di Zhengyi Wu, Peter H. Raven e Deyuan Hong (Beijing: Science Press, St. Louis: Missouri Botanical Garden Press, 2011), 661; Kamini Gautam, Ravinder Raina, “Review of Nardostachys grandiflora: an important endangered medicinal and aromatic plant of Western Himalaya”, Forest Products Journal 63, no. 1 (2013): 67–71. http://dx.doi.org/10.13073/FPJ-D-12-00092; Kamini Gautam, Ravinder Raina, “New insights into the phenology, genetics and breeding system of critically endangered Nardostachys grandiflora DC.”, Caryologia 69, no. 2 (2016): 91–101. https://doi.org/10.1080/00087114.2015.1109939; Focko Weberling, Volker Bittrich, “Valerianaceae”, in Flowering plants. Eudicots. The families and genera of vascular plants, a cura di Joachim W. Kadereit e Volker Bittrich (Cham: Springer, 2016), vol. 14, 385–401. https://doi.org/10.1007/978-3-319-28534-4_35.

78 Vicentini et al., “Spigo nardo”, 909–921.

79 Vicentini et al., ibid.; Don, Prodromus, 159–160. Le piante provenienti dall’Asia giungevano nei porti europei (da noi il terminale era Venezia) sotto forma di “droghe”, ossia di volta in volta cortecce sminuzzate, foglie sminuzzate e altre parti utili (semi, fiori, ma anche essudati come l’incenso): da queste era impossibile risalire alla pianta completa e al suo aspetto. A volte, inoltre, si trattava di succedanei o surrogati, al limite della truffa commerciale. In più, lo stesso effetto derivava da piante diverse di cui magari arrivavano delle miscele che però andavano sotto lo stesso nome, che era una denominazione più merceologica che botanica. Solo grazie alle esplorazioni dirette fu finalmente possibile accertare la specie da cui si traevano le droghe. Ciò avvenne piuttosto tardi e inoltre non è detto che l’identificazione, per le ragioni suesposte, fosse esatta e non invece una scelta parziale e parzialmente arbitraria.

80 Traduzione a cura di H. Rackham, Pliny. Natural History (Cambridge - Massachusetts: Harvard University Press, 1945), 30–31, tradotto letteralmente dall’inglese.

81 Jacques André, Les noms de plantes dans la Rome antique, 2e tirage (Paris: Les Belles Lettres, 2010), 170.

82 Vicentini et al., “Spigo nardo”, 909–921.

83 Rajinder K. Gupta et al., “A review on spikenard (Nardostachys jatamansi DC.)—An ‘Endangered’ Essential Herb of India”, International Journal of Pharmaceutical Chemistry 2, no. 2 (2012): 52–60. https://doi.org/10.7439/ijpc.v2i3.716.

84 Soldano, “L’erbario III-IV”, 28–29; Id., “L’erbario V-VI-VII”, 31–33; Id., “L’erbario VIII-IX-X-XI”, 20, 107; Id., “L’erbario XII-XIII-XIV”, 173.

85 Chiovenda, “Francesco Petrollini”, 339–447.

86 Bosi et al., “Brassica and Sinapis seeds”, 1–25.

87 Hist. Nat. XX, 78–95.

88 Pietro Andrea Mattioli, I discorsi di M. Pietro Andrea Matthioli Sanese, medico cesareo, et del Serenissimo Principe Ferdinando Archidvca d’Avstria &c. nelli sei libri di Pedacio Dioscoride Anazarbeo della materia medicinale (Venetia: Vincenzo Valgrisi, 1568), 497.

89 Alfredo Cattabiani, Florario. Miti, leggende e simboli di fiori e piante (Milano: Arnoldo Mondadori Editore, 1998), 596–599.

90 Pignatti et al., Flora d’Italia, II, 1016–1017.

91 Per ulteriori approfondimenti, cfr. anche Lorenzo Maggioni, Alessandro Alessandrini, “The occurrence of Brassica montana Pourr. (Brassicaceae) in the Italian regions of Emilia-Romagna and Marche, and in the Republic of San Marino”, Italian Botanist 7 (2019): 1–16. https://doi.org/10.3897/italianbotanist.7.31727.

92 Pignatti et al., Flora d’Italia, II, 1018.

93 Thesaurus Linguae Latinae, II, 2165.

94 Pignatti et al., Flora d’Italia, II, 1018.

95 Soldano, “L’erbario I-II”, 92; Id., “L’erbario V-VI-VII”, 122.

96 Chiovenda, “Francesco Petrollini”, 339–447.

97 Caruel, Illustratio, 102.

98 Giovanni De Brignoli di Brunnhoff, “Intorno al Moly d’Omero. Lettera di Giovanni De’ Brignoli di Brunnhoff al Chiarissimo e Reverendo Sig. Don Celestino Cavedoni”, Nuovi Annali delle Scienze Naturali e Rendiconto delle Sessioni delle sessioni della Società Agraria, e dell’Accademia delle Scienze dell’Istituto di Bologna, ser. II, tom. VI (1846): 5–28.

99 Pignatti et al., Flora d’Italia, I, 268.

100 Soldano, “L’erbario III-IV”, 62; Id., “L’erbario VIII-IX-X-XI”, 125.

101 Biblioteca Universitaria di Bologna, Fondo Ulisse Aldrovandi, lettera a P.A. Mattioli del 15-8-1553 (ms. 136-XIV, cc. 316v-317r).

102 Della radice di Gentiana purpurea Antonio Bertoloni in Flora Italica scrive essere “amarissima”.

103 Giovanni Fantuzzi, Memorie della vita di Ulisse Aldrovandi medico e filosofo bolognese (Bologna: Lelio dalla Volpe, 1774), 66.

104 In passato, invece, la raccolta anche piuttosto intensa era compiuta a scopo medicinale. Già nella Flora della Provincia di Bologna, pubblicata nel 1883, l’autore Girolamo Cocconi scrive: “Difficile a raccogliersi sul Corno alle Scale, non per la sua rarità, ma per essere questa specie premurosamente cercata dai pastori, quale conosciuto rimedio febbrifugo”. Anche Giuseppe Ungarelli nel suo volume Le piante aromatiche medicinali nei nomi e nell’uso della tradizione popolare bolognese, edito nel 1921, dice che questa genziana era ricercata nel Bolognese per “le radici, che si sostituiscono a quelle della genziana lutea, la vera officinale”. Altre genziane erano parimenti usate a scopo medicinale, come Gentiana asclepiadea L., di cui Aldrovandi possiede 5 campioni d’erbario e della quale esiste un campione anche nell’Erbario En Tibi (c. 130r, n. 210: Gentiane species).

105 Sandro Pignatti, Flora d’Italia (Bologna: Edagricole, 1982), II, 331.

106 Soldano, “L’erbario VIII-IX-X-XI”, 208.

107 Pier Andrea Saccardo, Cronologia della Flora italiana (Padova: Tipografia del Seminario, 1909).

108 Soldano, “L’erbario V-VI-VII”, 216. Il riferimento è a Cortusa matthioli L., specie delle montagne d’Eurasia da noi vivente solo sulle Alpi, molto rara.

109 Pignatti et al., Flora d’Italia, II, 1088–1089.

110 Ibid.

111 Qualche risultato è possibile ottenere grazie all’analisi filologica dei nomi, per confronto con altri erbari e trattati coevi (cfr. ad es. Annamaria Ciarallo, “L’erbario di Ferrante Imperato”, Museologia Scientifica 3, no. 3-4 (1986): 187–213); la verifica con metodi strumentali, tuttavia, permetterebbe di correggere eventuali inesattezze dovute a identificazioni erronee da parte dell’autore dell’erbario, o ad ambiguità nell’uso di un certo nome per indicare una data specie intesa in senso moderno, causate dall’assenza di una base univoca e codificata per il riconoscimento delle specie medesime, che era per l’appunto la ragione del dibattito fra tanti botanici del Rinascimento (vedasi in proposito Cristofolini, “Nicolò Leoniceno”, 93–98).

112 Di Tommaso, “La natura di carta”, cap. I, 24–27.

113 Soldano, “L’erbario XV”, 80. Fra quelli da compulsare si ricordano i mss. 34 voll. III-V, 105 (quasi tutti i volumi) e 136 voll. III-VII. Non si può escludere, inoltre, che ulteriori indicazioni dei luoghi di raccolta si annidino nella corrispondenza di Aldrovandi, solo in parte pubblicata e studiata.

114 Jean-Baptiste Saint-Lager, Histoire des Herbiers (Paris: Jean-Baptiste Baillière et fils éditeurs, 1885), 36 (tradotto letteralmente dal francese).