Dall’Antidotarium Bononiense di Ulisse Aldrovandi alla farmacopea nazionale postunitaria: la lunga storia di un difficile rapporto tra scienza e politica

Mauro Mandrioli

Dipartimento di Scienze della Vita, Università di Modena e Reggio Emilia

mauro.mandrioli@unimore.it

/ Abstract

Nel corso del Cinquecento la necessità di mettere in ordine un sapere farmaceutico in rapida evoluzione portò alla pubblicazione di numerose farmacopee approvate dalle autorità. Tra gli antidotari più apprezzati e longevi vi è l’Antidotarium Bononiense, fortemente voluto dal bolognese Ulisse Aldrovandi, testo che rimase in uso in alcuni Stati italiani preunitari sino all’inizio dell’Ottocento e che ispirò molte delle farmacopee successive. Il presente saggio analizza i contenuti di alcune delle più apprezzate farmacopee italiane e ne suggerisce la rilettura, in quanto esse hanno in realtà un grande valore sia storico che prospettico per ricostruire l’evoluzione delle scienze farmaceutiche e per analizzare il complesso (e ancora irrisolto) rapporto che intercorre tra politica e scienza quando devono essere definite le politiche sanitarie di uno Stato.

In the course of the sixteenth century, the need arose to systematize a rapidly evolving stream of pharmacological knowledge led to the publication of numerous pharmacopoeias approved by local authorities. Among the most appreciated and long-standing antidotari is the Antidotarium Bononiense, a project dear to the Bolognese Ulisse Aldrovandi, a text that would remain in use in some pre-unification Italian states until the beginning of the nineteenth century, and one which would inspire many of subsequent pharmacopoeias. The present work analyzes the contents of some of the most well-known Italian pharmacopoeias and suggests their rereading. It is argued that these works are of great historical and contemporaneous value for reconstructing the evolution of pharmaceutical sciences, as well as analyzing the complex (and still unresolved) rapport that exists between politics and science in cases where a state must define the politics of health.

/ Keywords

Pharmacopoeia; Pharmacy; Antidotarium.

© Mauro Mandrioli, 2023 / Doi: 10.30682/aldro2301c
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1. Introduzione

La ricerca di farmaci efficaci contro il dolore e le malattie ha caratterizzato la storia dell’umanità sin dalle sue origini.1 Come ben attestano, inoltre, le recenti evidenze pubblicate sull’uso di rimedi nell’uomo di Neanderthal,2 questa ricerca fu propria non solo della nostra specie, ponendo questa primitiva forma di farmacologia tra le prime innovazioni tecnologiche introdotte nel genere Homo.

A partire dal Trecento l’identificazione e la preparazione dei medicamenti divennero progressivamente competenza esclusiva di specifiche figure, che vennero ben presto identificate come speziali o aromatari,3 tanto che già nel Quattrocento quelle che noi oggi chiamiamo scienze farmaceutiche acquisirono lo status di disciplina autonoma, che si occupava di selezionare gli ingredienti dei rimedi/medicamenti e di prepararli e conservarli in modo opportuno per poi comporli in ricette.4 Un’eccellente attestazione di questa evoluzione professionale si trova nel Compendium aromatariorum di Saladino d’Ascoli, opera pubblicata in editio princeps a Bologna il 12 marzo 1488 e poi ripubblicata in numerose edizioni nei secoli successivi, con l’idea di raccogliere tutto il sapere dell’epoca, incluse indicazioni in merito alle competenze richieste al farmacista e a suoi doveri professionali, tra cui anche la vendita dei farmaci a un prezzo onesto.5

Nel corso del Cinquecento la necessità di mettere ordine in un sapere farmaceutico in rapida evoluzione portò alla pubblicazione di numerose farmacopee, veri e propri antidotari ufficiali approvati dalle autorità. In particolare, il termine “farmacopea” divenne ben presto di uso comune per identificare quelle opere, dedicate alla pratica farmaceutica, che erano necessarie ai farmacisti per conoscere “l’identificazione, la purezza e la conservazione dei più importanti medicamenti e per la loro manipolazione nelle ricette”.6 Sono un esempio di questa nuova necessità le prime edizioni del Ricettario fiorentino (Receptario composto dal famosissimo chollegio degli esimi doctori della arte et medicina della inclita ciptà di Firenze) stilate a partire dal 1498 dal Consiglio dei Medici, così come le farmacopee pubblicate nei decenni successivi a Barcellona (1511), Saragozza e Norimberga (1546), Mantova (1559), Anversa (1560) e Colonia (1565), Bologna (1574), Bergamo (1580), Roma (1583) e Ferrara (1595).7

Inizialmente erano i singoli medici a compilare i testi farmaceutici, perlopiù con l’intenzione di diffondere il proprio sapere e la propria esperienza; ben presto furono i sovrani e le organizzazioni corporative, che presiedevano all’esercizio professionale, a sostenere la necessità di regolamentare l’attività medica e l’arte farmaceutica, uniformando i metodi di preparazione dei medicinali e i loro prezzi. Pur rimanendo quindi per molti versi subordinato al medico, lo speziale trovava nella farmacopea uno strumento proprio che riportava non solo la corretta composizione dei medicamenti e l’elenco di quelli approvati, ma anche delle indicazioni sul modo in cui essi dovevano essere conservati e venduti.

Gli antidotari divennero nel Cinquecento documenti ufficiali con l’identificazione anche di funzionari deputati al controllo e all’ispezione delle farmacie al fine di evitare adulterazioni o frodi, legate, ad esempio, all’uso di materie prime in cattivo stato di conservazione.

2. L’Antidotarium Bononiense di Ulisse Aldrovandi

Parallelamente alla diffusione degli antidotari, nel corso del Cinquecento divennero sempre più ricorrenti le lamentele relative a contraffazioni, omissioni e sostituzioni operate nei medicamenti venduti, che in alcuni casi si rivelavano non solamente inutili, ma addirittura pericolosi per la salute dei cittadini. Per questo motivo molte corporazioni fissarono norme ben definite non solo per regolamentare la composizione e la preparazione dei diversi medicamenti, ma anche per definire il modo in cui i singoli ingredienti dovevano essere conservati.8

A Bologna, già dalla fine del Trecento, la Compagnia degli Speziali era sottoposta alla vigilanza del Collegio dei Medici, attività che risultava però scarsamente efficace, tanto che per cercare di limitare i casi di contraffazioni, si susseguirono non solo numerosi bandi, diffide e sanzioni, ma anche l’istituzione, nel 1517, di una specifica commissione (composta da tre membri del Collegio dei Medici), il cui compito includeva l’eseguire visite regolari nelle spezierie.9 Questa commissione, denominata Protomedicato, doveva effettuare visite trimestrali nelle spezierie poste in città e ispezioni a cadenza semestrale in quelle ubicate al di fuori delle mura, così da controllare licenze, pesi e prezzi, oltre che la qualità e lo stato di conservazione delle materie prime.

Da quanto però emerge nelle relazioni presenti nei Liber Prothomedicorum conservati nell’Archivio Arcivescovile di Bologna e studiati da Baldacci,10 tale attività di vigilanza non doveva essere molto efficace, tanto da stimolare l’intervento del naturalista e botanico Ulisse Aldrovandi, che promosse l’iniziativa di approntare un vero e proprio catalogo degli aromatari per combattere i numeri abusi lamentati dai cittadini. Come evidenziato da Baldacci,11 il lavoro di Aldrovandi non fu semplice sia per la complessità del tema (Aldrovandi raccomandava, infatti, di “conoscere di ciascuna cosa naturale i caratteri particolari, le proprietà, l’origine e la destinazione per mezzo dell’esperienza e dell’osservazione, così da non descrivere mai cosa alcuna senza averla toccata colle mani proprie e senza averne fatto l’anatomia”12) che per il rapporto non semplice che si instaurò con il Collegio dei Medici,13 a cui era affidato il controllo della professione medica a Bologna: “i dottori ordinari e i dottori collegiati di Medicina e di Arti curavano infatti fin dalla loro origine che nessuno in Bologna esercitasse la medicina pratica o vendesse medicine se per tre anni non avesse studiato medicina pratica”.14

Nell’intento di Aldrovandi, che auspicava che “il Collegio de’ Medici di Bologna componesse un Antidotario eruditissimo, non inferiore al Fiorentino et d’altre città, essendo essa stata la prima che ha insegnato a l’altre, et fece prima d’ogni altra la teriaca in Italia”,15 era necessario dotarsi non solamente di un vero e proprio Catalogo degli Aromatari, ma anche di un Catalogo dei Medicamenti Semplici (che includesse tutti i rimedi che dovevano sempre essere presenti in ogni farmacia) e un Giardino dei Semplici comunale, così che fosse presente nella città di Bologna, al pari di Pisa (il cui orto è stato fondato nel 1543), Padova (istituito nel 1545) e Firenze (fondato nel 1545), anche un vero e proprio spazio per lo studio delle piante officinali.16

La commissione proposta da Aldrovandi si insediò nel 1564 e solo dopo dieci anni pervenne effettivamente alla pubblicazione dell’Antidotario Bolognese (Antidotarii Bononiensis sive de usitata ratione componendorum miscendoruque medicamentorum Epitome).17

L’Antidotario (Fig. 1), stampato dal tipografo Giovanni Rossi, è organizzato in due parti, di cui la prima comprendeva la composizione dei medicamenti approvati dal Protomedicato e dal Collegio dei Medici, mentre la seconda forniva il prospetto dei pesi adoperati, indicava come i farmaci dovevano essere preparati e conservati nonché le differenti denominazioni con cui tali rimedi potevano trovarsi nelle varie farmacie. Ogni Stato italiano preunitario aveva, infatti, tradizioni diverse nel preparare i medicamenti e gli stessi ingredienti potevano avere nomi diversi, così come le piante da cui essi erano ottenuti.


Fig. 1. Riproduzione del frontespizio della prima versione dell’Antidotarium Bononiense e di edizioni successive: a sinistra, prima edizione del 1574, da originale conservato presso la Biblioteca dell’Archiginnasio di Bologna (Source: AMS Historica); al centro, edizione del 1750, da originale conservato presso la Österreichische Nationalbibliothek (Source: Österreichische Nationalbibliothek); a destra, edizione del 1766, da originale conservato presso la Wellcome Library (Source: Wellcome Collection).

Al momento della pubblicazione della prima edizione (l’opera di Aldrovandi ebbe un grande successo, tanto che vennero pubblicate ben diciassette edizioni), i medicamenti composti elencati erano oltre 540 e, come da tradizione iniziata nel Grabadin (un ricettario del XII secolo realizzato dalla scuola medica araba, i cui maggiori esponenti furono Mesue, Rhazes e Avicenna),18 sono distinti in elettuari, conserve, conditi, lenitivi, solutivi, pillole, sciroppi, giulebbi, succhi medicinali, medicamenti mucillaginosi, trocisci, colliri, polveri, unguenti, empiastri, e cerotti e per ciascuno di essi venivano fornite le indicazioni terapeutiche e posologiche.

Data l’importanza della “arte farmaceutica” il naturalista bolognese si adoperò quindi affinché si potesse “giungere alla formazione di un antidotario che fosse garanzia per il retto funzionamento delle farmacie, così come in riguardo alle medicine che dovevano usarsi, come ai prezzi di vendita”.19

A partire dalla seconda edizione, l’Antidotario venne strutturato per affezione/malattia (index morborum quibus praesidia in hoc volumine contenta conveniunt), con le diverse malattie elencate in ordine alfabetico (da “aborto” a “indurimento vulvare”), così da rendere l’Antidotario uno strumento pratico di facile utilizzo.

L’intento pratico dell’Antidotario traspare anche dalla concisione con cui le ricette sono riportate e che illustrano, in modo schematico, ingredienti, tecnica di preparazione e indicazione terapeutica. È però interessante osservare che le tecniche di preparazione non sono illustrate, ma solo citate senza spiegazioni; questo perché il testo non mirava ad avere una valenza didattica, quanto piuttosto pratica e normativa, e affidava le preparazioni alla competenza del professionista che doveva operare a regola d’arte: “fiat secundum artem”, “ex lege artis”. Alcune tecniche sono esposte in appendice, solo a garanzia della correttezza della procedura (come per lo zucchero chiarificato o il miele despumato) e della conservazione del preparato (come per semi, radici e fiori), o per la complessità e rarità d’applicazione (quali erano i preparati che includevano millepiedi, coralli, madreperle o, persino, gli occhi di granchio). Questo aspetto diverrà ricorrente anche nei ricettari pubblicati nei secoli successivi, vale a dire un volume pratico corredato da un commentario che illustra i dettagli sulle modalità di preparazione. Chiudevano l’opera l’elenco dei medicinali da tenere sempre in farmacia (Catalogus medicinalium compositorum ac simplicium quae ex praescripto illustrissimo Collegii medicinae In omnibus Pharmacopoliis Civitatis & Comitatus Bononiae perpetuo exstare debent) e l’elenco dei semplici citati nell’Antidotario.

La prima edizione dell’opera curata da Aldrovandi venne accolta con un generale favore, perché rendeva disponibile per la città di Bologna un “antidotario non empirico, ma coscienzioso affinché le stolte pratiche e gli abusi antichi si togliessero”,20 frutto di un faticoso lavoro di mediazione tra chi sosteneva la medicina tradizionale e l’idea di Aldrovandi di rendere disponibili medicamenti più efficaci. Il naturalista e botanico bolognese “ebbe a lottare con pregiudizi e inveterate usanze, con uomini caparbi e presuntuosi, con maligni spiriti e sospettosi emuli. Combatté a lungo prima di vincere; ma riportò finalmente vittoria gloriosa, perché la ragione la vinse sull’abitudine e sull’autorità”.21 Se da un lato quindi venne riconosciuto ad Aldrovandi di non aver ammesso rimedi tradizionali privi di reale efficacia,22 dall’altro i suoi ricorrenti conflitti con il Collegio dei Medici23 resero l’Antidotario Bolognese meno elaborato e ricco di contenuti di quanto avrebbe potuto essere: “dal Collegio Medico della dotta Bologna e dal coltissimo Aldrovandi potevasi aspettare qualche cosa di meglio; e l’uno e l’altro avevano debito di far meglio dopo le due edizioni del Ricettario fiorentino, a cui del resto neppur accennano: non bastava escludere la farmacia stercoraria, perché l’opera fosse degna della scuola bolognese sì celebre per lo studio dell’anatomia e delle scienze naturali; e se quella ha il pregio, quale li autori di essa erano persuasi avesse, bisogna proprio dire che allora tutte le cose pertinenti alla farmacia quasi tenebris immersa atque involuta essent”.24

Indubbiamente nella prima edizione dell’Antidotario rimasero numerosi riferimenti a rimedi “tradizionali” che furono successivamente rifiutati dalle scienze farmaceutiche moderne, a differenza di quanto invece gli autori auspicavano nella dedicatoria al Senato presente in apertura dell’opera. L’Antidotario aldrovandiano venne, infatti, più volte rivisto e aggiornato. Nelle edizioni successive, sebbene in forma di appendice, iniziarono, ad esempio, a comparire anche i rimedi chimici ottenuti per distillazione e sublimazione, tra cui acque, oli, estratti, sali e tinture. Ne sono un esempio gli estratti di corteccia peruviana (la China-china) contro la febbre, il Vino Marziale per contrastare l’inappetenza e il Sale d’Inghilterra (solfato di magnesio) come purgante.25

Nelle edizioni dell’opera di Aldrovandi pubblicate nella seconda metà del Settecento i preparati chimici divennero progressivamente più numerosi, in quanto l’avvento della chimica moderna incise in modo determinante sulle scienze farmaceutiche dell’epoca (Fig. 1). Naturalmente la polifarmacia medievale rimase presente ancora per molto tempo con formule per così dire “tradizionali”, ma lo stesso Antidotario Bolognese mostra la rilevanza dei rimedi chimici, tanto che l’edizione data alle stampe il 23 maggio 1750 includeva 472 medicamenti tradizionali e oltre 300 composizioni chimiche.26 Come avrebbe riportato Alfonso Corradi nel tardo Ottocento, “l’Antidotario bolognese del 1750 segna un punto assai notabile nella storia delle Farmacopee italiane: il riconoscimento, direbbesi oggi, ufficiale della farmacia chimica; e così quello che nelle precedenti due stampe del 1641 e 1674 non era se non umile appendice, in questa diviene parte integrante del Ricettario, cioè la seconda delle due parti in cui dividevasi l’opera”.27

La chimica farmaceutica iniziò a trovare spazio anche negli antidotari di altre città, ma “chi avrebbe mai detto che in meno d’un secolo la chimica avrebbe fatto si lungo cammino da obbligare ad introdurre cotanti de’ suoi prodotti nella farmacia?”.28 Non in tutti gli Stati preunitari però il successo fu simile a quello che si riscontrò a Bologna, dove la chimica divenne ben presto oggetto di studi sperimentali non solo nell’ateneo felsineo, ma anche nell’Istituto delle Scienze di Bologna fondato dal generale Luigi Ferdinando Marsili.29

Sebbene l’Antidotario del “tenace indagatore della natura”30 sia stato oggetto di numerose critiche da parte degli speziali bolognesi,31 divenne un testo di riferimento molto apprezzato, tanto che non solo rimase in auge anche dopo la soppressione dei Collegi Professionali e delle Società d’Arti voluto dal governo napoleonico nel 1796, ma venne ristampato a Venezia nel 1800. Sembra in effetti che medici e farmacisti continuassero ad apprezzarne la semplicità d’uso e il costante aggiornamento, grazie al quale farmaci non più considerati efficaci venivano progressivamente eliminati, contestualmente però al rispetto di parte delle tradizioni farmaceutiche: “noi non possiamo distenderci in più particolari considerazioni sul fatto che in simili pubblicazioni lo spirito di riforma trova un grande ostacolo nella resistenza della consuetudine, nell’ossequio alla tradizione, più facile essendo venerare che scrutare; se altrimenti fosse non ci potremmo dare ragione come uomini di non comune dottrina e con occhio che vedeva più in là del comune potessero consentire di tener dietro fino ad un certo punto al l’andazzo. Ed appunto l’Antidotarium bononiense del 1750 rappresenta insieme conquiste della scienza e indulgenti concessioni al passato”.32

L’Antidotario di Aldrovandi rimase in uso sino al 1809,33 anno in cui venne pubblicata la Farmacopea per lo Spedale Maggiore della Città di Bologna, a opera di Francesco Maria Coli, farmacista dell’Ospedale e titolare dal 1802 della cattedra di chimica farmaceutica dell’ateneo bolognese. Questo formulario risulterà più adeguato alle nuove necessità dei farmacisti non solo per la praticità dei nuovi farmaci di origine chimica, ma anche per la loro maggiore efficacia farmacologica rispetto ai prodotti tradizionali.34

L’Antidotario Bolognese e più in generale il ruolo che il Senato bolognese conferì ad Aldrovandi nel tentativo di controllare l’operato del Collegio dei Medici sono un ottimo esempio anche delle difficoltà, che già nel Cinquecento stavano prendendo forma, nel conciliare scelte politiche, interessi corporativi, salute e scienza.35 La nomina di Aldrovandi era, infatti, un chiaro tentativo del Senato bolognese di controllare tanto i medici quanto gli speziali, facendo leva sulla volontà del naturalista bolognese di perseguire cambiamenti importanti nel campo della preparazione dei medicinali al fine di assicurare un maggior benessere alla popolazione, assicurando anche che fossero adottati rimedi già ampiamente diffusi in città con cui Bologna era in competizione, tra cui Venezia, Padova, Verona, Napoli e Ferrara. In questo caso quindi il Senato bolognese fece leva sull’orgoglio e sull’autorevolezza di Aldrovandi (che da tale rapporto politico riteneva di poter trarre anche una occasione per migliorare ulteriormente la propria reputazione) per provare a imporre al Collegio dei Medici una commissione di controllo. Come riportato da Cevolani e Buscaroli,36 l’idea del Governatore di un Protomedicato indipendente dal Collegio dei Medici fu immediatamente osteggiata dai medici che risposero rivendicando non solo i propri diritti sopra le spezierie, ma anche minacciando di espulsione (e quindi nei fatti di esclusione dalla possibilità di esercitare la professione medica) coloro che avessero accettato di ricoprire il ruolo proposto dal Governatore. Il compromesso venne trovato nella costituzione di una commissione mista con membri nominati dal Senato e membri identificati con cadenza trimestrale dal Collegio.

3. La farmacopea per gli Stati Estensi

Nel corso dell’Ottocento numerosi Stati italiani preunitari decisero di dotarsi di ricettari e farmacopee al fine di regolamentare la diffusione di rimedi e medicamenti, così come il loro prezzo. I governi ritenevano importante, inoltre, la sorveglianza delle farmacie, avvalendosi di specifici ufficiali che rappresentavano una vera e propria forma di autorità pubblica, il cui fine era evitare frodi e adulterazioni dei medicamenti.37

Disporre di una farmacopea ufficiale era considerato un atto politico importante, perché

se uno de’ più incessanti doveri di chi è preposto al governo de’ popoli si è il vegliare sulla sicurezza e prosperità di questi, uno di non minore interesse si è quello di intendere alla sanità degli stessi; e le maniere colle quali devonsi preparare i vari medicamenti per la cura e guarigione delle malattie sono pure per questi oggetti della più alta importanza. […] È perciò che S.A.R il Serenissimo Duca di Modena […] ordinava la pubblicazione di una Farmacopea pei propri Stati. Si affidava la compilazione di essa a diversi dotti professori componenti una commissione che, prese ad esame le diverse condizioni sotto le quelli debb’essere pubblicato un siffatto libro, faceva in una lunga prefazione partitamente conoscere ogni cosa ed i pregi dei quali è necessario vada fornita una farmacopea.38

La prima notizia ufficiale dell’imminente entrata in vigore di una farmacopea estense risale al 7 novembre 1839, data in cui Luigi Rangoni, in qualità di Ministro di Pubblica Economia e Istruzione del Ducato di Modena, informava i sudditi dell’importante avvenimento.39 La grida (così venivano chiamate le comunicazioni ufficiali, tra cui disposizioni, editti e avvisi pubblici, emesse dall’autorità in quanto “gridate” sulla pubblica piazza da un apposito banditore) era stata preceduta da una circolare del giorno 1 luglio 1839, con cui si invitavano i Governatori a comunicare ai farmacisti che la nuova farmacopea sarebbe entrata in vigore a partire dal primo gennaio 1840. La circolare indicava, inoltre, che eventuali rimedi compilati secondo “metodi antichi” potevano essere commercializzati sino alla fine del mese di luglio 1840, data oltre la quale esclusivamente i rimedi previsti nella nuova farmacopea potevano essere preparati e commercializzati ed erano state definite anche le penali in caso di mancato rispetto delle nuove indicazioni. Al fine di favorire l’attuazione delle nuove indicazioni, copie della Farmacopea estense (furono stampati complessivamente 1200 esemplari) vennero inviate non solo a farmacisti, ma anche a medici e chirurghi, così che anche le loro prescrizioni fossero conformi alla nuova farmacopea.

La stesura della Farmacopea durò dodici anni, tanti sono infatti gli anni che passarono fra la data del 10 luglio 1828 (in cui venne nominata la prima Commissione) e quella in cui la Farmacopea per gli Stati Estensi entrò in vigore (Fig. 2). Prima della pubblicazione di tale documento, i medici e i farmacisti dovevano attenersi a due codici (Il registro de’ medicamenti e il Formulario compilato dal medico modenese Giambattista Moreali), affiancati da edizioni ottocentesche dell’Antidotario Bolognese di Ulisse Aldrovandi. Sebbene l’edizione usata nel Ducato Estense rappresentasse una riedizione dell’opera aldrovandiana (più precisamente la diciassettesima), l’impostazione generale e la maggior parte dei contenuti voluti dal naturalista bolognese nel 1574 rimasero di fatto invariati.

Fig. 2. Frontespizio della Farmacopea per gli Estensi (a sinistra) e del tariffario Tariffa de’ Medicamenti portati dalla Farmacopea per gli Estensi (a destra). Riproduzione da originale di proprietà dell’Autore.

Il testo approvato dal marchese Luigi Rangoni fu il frutto del lavoro di due commissioni, di cui la prima, formata dal chimico Barani, dai medici Goldoni e Merosi e dallo speziale Amorth, ebbe l’incarico di determinare il tariffario di medicamenti e rimedi, così che il loro costo fosse corretto e si evitassero gli abusi lamentati più volte dai cittadini del Ducato Estense.40 La commissione optò invece per una versione più estesa che richiamava l’Antidotario di Aldrovandi, di cui condivideva anche il fatto di essere pensata come uno strumento pratico. Dopo quattro anni, la commissione propose al Duca Francesco IV una prima stesura, che venne però giudicata solo parzialmente rispondente alle necessità del Ducato. In particolare, la parte sui medicamenti e rimedi risultò troppo poco approfondita, per cui il Duca decise, anche in funzione della morte di alcuni componenti della commissione (vennero a mancare sia Barani che Amorth), di nominare un nuovo gruppo di esperti. Il 20 gennaio 1838 il consigliere di Stato Pietro Abbati Marescotti nominò quindi la nuova commissione, che risultò essere composta dai docenti universitari Giovanni Bianchi, Luigi Emiliani e Alessandro Savani (un fisiologo, un chimico medico e un chimico farmaceutico), sotto la direzione di Antonio Goldoni, l’unico componente della prima commissione a essere coinvolto anche in questa seconda.41

Durante la fase di stesura, vennero consultate non solo le principali farmacopee italiane, ma anche testi stranieri, tra cui la Pharmacopée universelle, ou Conspectus des pharmacopées di Antoine-Jacques-Louis Jourdan e il Formulaire pour la préparation et l’emploi de plusieurs nouveaux médicaments di François Magendie. Inoltre, gli Autori decisero di realizzare alcuni esperimenti, appositamente progettati, su animali al fine di verificare i reali effetti di rimedi e preparati prima di riportarli nel testo.42

I lavori terminarono il 3 settembre 1838 con l’approvazione di un testo che rappresentò una profonda revisione rispetto a quanto proposto dalla precedente commissione, ma che venne molto apprezzato dai contemporanei, che non esitarono a definire la Farmacopea “un’opera veramente degna di encomio”43 e un “lavoro organico e ponderato di guida pratica erudita”.44

Nella prima parte della Farmacopea per gli Stati Estensi erano raccolti i medicamenti semplici, mentre le seconda comprendeva i medicamenti composti e la loro posologia, aspetto quest’ultimo discusso collegialmente, così come il tariffario (Tariffa de’ Medicamenti portati dalla Farmacopea per gli Estensi45) che chiudeva l’opera (Fig. 2), al fine di trovare un giusto compromesso tra il costo del medicamento e il guadagno del farmacista: “fu posta ogni cura a comporre l’utile per l’umanità inferma con le ragioni economiche de’ singoli e con l’onesto emolumento dovuto alla decorosa professione del farmacista”.46 Il tariffario venne anche stampato separatamente dal testo, così che l’utilizzo da parte del farmacista ne risultasse agevolato.

I medicamenti (ben 280) vennero presentati in ordine alfabetico a ribadire come la Farmacopea estense dovesse essere in primo luogo uno strumento pratico e di facile uso quotidiano,47 indicando per altro con un asterisco “quei medicamenti che devonsi immancabilmente trovare in qualsiasi Farmacia”. Per molti medicamenti non venne, infine, indicata solo la fase di preparazione e conservazione, ma anche le indicazioni terapeutiche generiche, tra cui ad esempio l’utilità come astringenti, diuretici, purganti e nervini.

La Farmacopea Estense identificava, inoltre, il sistema di pesi da usare (libbra medica), in modo da mettere ordine nelle differenti libbre locali in uso nelle diverse città del Ducato Estense: “la libbra medica si compone di dodici oncie, l’oncia di otto dramme, la dramma di tre scrupoli, lo scrupolo di ventiquattro grani, il grano equivale al peso di un grano di orzo di mediocre grandezza. Questa libbra corrisponde a tre oncie, quattro grossi, quattro grani e cinquecentosessantasette milles. del peso metrico”.48 L’adozione del più pratico sistema metrico decimale venne probabilmente vista come eccessivamente rivoluzionaria, tanto più in uno Stato conservatore come quello Estense. La Farmacopea per gli Stati Estensi fu, inoltre, il primo antidotario italiano a includere e insegnare la preparazione di medicamenti, come la morfina, la stricnina e la chinina, le cui scoperte sono databili tra il 1817 e il 1821 ad attestare l’aggiornamento del lavoro fatto.49 La Farmacopea Estense indicava, infine, la scala di riferimento da utilizzare per la misurazione della temperatura, così da uniformare la fase di preparazione dei medicamenti, optando per quella proposta dallo scienziato e fisico francese René-Antoine Ferchault de Réaumur.50

L’opera voluta dal Duca Francesco IV rimase in uso ufficialmente nei territori estensi per cinquantadue anni e quindi anche a seguito della proclamazione del Regno d’Italia.51 Nel 1888 la legge Crispi sulla tutela dell’igiene e della sanità pubblica indicò la necessità di stilare una nuova farmacopea, che divenisse il testo di riferimento ufficiale di tutta l’Italia, cosa che avvenne a partire dal primo gennaio 1893 con la contemporanea abrogazione delle farmacopee vigenti nei singoli Stati preunitari ormai soppressi.52

Le legge Crispi fu alla base della prima grande riforma sanitaria italiana, che istituirà le fondamenta del sistema sanitario pubblico. Grazie alla proposta di Crispi, la polizia sanitaria venne sostituita da una sanità pubblica dotata di un’organizzazione di tipo piramidale, che mirava a garantire un flusso continuo di informazioni dai comuni al governo centrale.53 La legge Crispi prescriveva, infatti, la denuncia obbligatoria, da parte dei Comuni, delle malattie contagiose, così come la compilazione di statistiche sanitarie relative alle cause di morte e alle malattie più diffuse.54

Come sottolineò Benedetto Croce,55 grazie alla legge Crispi, “la vigilanza igienica in Italia fece molti passi innanzi, concorrendo alla sparizione o attenuazione delle epidemie e degli altri morbi e dell’abbassamento della mortalità”. Sebbene esuli dallo scopo della presente analisi, è interessante osservare che la legge Crispi fu fortemente ispirata dalla preoccupazione per il bene comune, in cui la sanità diveniva pubblica in quanto a tutti i cittadini doveva essere assicurato l’accesso a adeguate cure mediche.56

La legge Crispi aveva però anche importanti lacune, tra cui appare particolarmente rilevante (anche nell’ottica della presente analisi) la mancata estensione dell’obbligo dell’assistenza sanitaria gratuita anche all’assistenza farmaceutica.57 Come suggeriva il medico e politico Jakob Moleschott “l’assistenza medica chirurgica il più delle volte non ha nessun esaurimento se non è accompagnata dalla somministrazione dei medicamenti”.58

4. La farmacopea nazionale italiana tra scienza e politica

La compilazione di una farmacopea nazionale fu di particolare importanza per una nazione, come l’Italia, nata dall’unione di tanti piccoli Stati, in cui erano in uso ricettari e antidotari differenti per la ricchezza dei medicamenti consigliati e per lo spazio che la medicina tradizionale aveva mantenuto. In conseguenza di questa eterogeneità, alcuni rimedi tradizionali erano ancora in uso in alcuni Stati preunitari, mentre erano stati banditi in altri, così come vi erano discrepanze nella preparazione di farmaci che teoricamente avrebbero dovuto essere molto simili.59 A questo si deve aggiungere che in alcuni Stati preunitari le farmacopee in uso non erano ufficiali e pertanto potevano differire anche per il modo in cui i rimedi derivati da piante erano ottenuti, sia relativamente alla parte della pianta usata che per il momento in cui essa veniva raccolta. La farmacopea nazionale non poteva quindi limitarsi ad assemblare in un unico elenco tutti i medicamenti presenti nelle singole farmacopee, ma doveva necessariamente realizzare un’analisi critica limitando la presenza di farmaci di dubbia o scarsa efficacia. Per essere utile la farmacopea nazionale doveva, inoltre, essere chiara e breve, così da risultare facilmente consultabile.

Con la pubblicazione dell’edizione nazionale (che includeva 597 medicamenti) si riprese l’abitudine di abbinare al testo della farmacopea un commentario che includesse non solamente le informazioni chimico-farmaceutiche, ma anche gli usi terapeutici, le dosi, gli antidoti, le modalità di somministrazione e il ricettario in uso nella medicina italiana e straniera.60

Un ulteriore elemento di interesse riguardò la scelta della lingua in cui formulare la farmacopea nazionale. Sin dalla prima edizione del 1892 la farmacopea nazionale venne pubblicata esclusivamente in italiano, a differenza di quanto accadde altrove, ad esempio in Austria, Finlandia e Giappone, in cui venne mantenuta la lingua latina. Altre nazioni, tra cui Belgio, Grecia, Olanda e Ungheria, optarono invece per una duplice edizione, di cui una in latino e una nella lingua nazionale.61

Nel 1934 venne invece istituita la Farmacopea Ufficiale, che ancora oggi viene redatta da un’apposita commissione di esperti nominata dal Ministero della Sanità, e che tiene conto anche di quanto incluso nella Farmacopea Europea. Il testo oggi in vigore è la XII Edizione della Farmacopea Ufficiale della Repubblica Italiana, integrato con l’aggiornamento e correzione della XII Edizione della Farmacopea Ufficiale della Repubblica Italiana e l’undicesima edizione della Farmacopea Europea.62

Un aspetto interessante è relativo al fatto che, a dispetto degli oltre 300 anni che separano l’Antidotario Bolognese dalla Farmacopea Ufficiale italiana, il difficile rapporto che spesso intercorre tra politica e scienza ha caratterizzato anche il contenuto di quest’ultima. Così come nella Bologna del Cinquecento, il Senato decise di usare anche a fini politici l’Antidotario, allo stesso modo nell’Italia degli anni Trenta del Novecento la politica andò a indirizzare la ricerca nel campo delle scienze farmaceutiche. La complessa situazione, in cui vennero a trovarsi molte attività produttive italiane a seguito delle difficoltà di importazione di numerose materie prime, mise in evidenza la dipendenza dell’Italia dall’estero, da cui derivò la decisione del governo di imporre a scienziati e imprenditori la valorizzazione delle risorse presenti nel nostro Paese. Nacque quello che venne descritto come un vero e proprio nazionalismo scientifico-tecnico, una concezione della scienza che privilegiava le ricerche rivolte allo sfruttamento delle risorse nazionali.63 Fu questo un mutamento ideologico che avrà grande peso negli sviluppi dell’ideale autarchico: “l’autarchia, proclamata dalla antiveggenza del nostro Duce ancora molto prima che l’attuale situazione la rendesse necessaria, ha spinto alla ricerca in tutti i campi di materiale indigeno che possa sostituire quello importato. Sono ben noti i risultati importantissimi cui si è giunti recentemente nel campo della chimica per la produzione sintetica di materiali indispensabili, o quasi, alla vita, ma anche in altri campi compreso quelle delle piante alimentari, industriali e medicinali sono state fatte ricerche per emanciparci per quanto possibile dell’importazione dall’estero”.64 La farmacologia ufficiale iniziò, quindi, a favorire la diffusione di principi attivi e di sistemi produttivi che meglio permettevano all’Italia di essere autonoma, ma che non necessariamente erano quelli più efficaci e utili da un punto di vista farmaceutico.

Il supporto alle politiche autarchiche non venne ovviamente solo dalla farmacologia, tanto che nell’aprile 1935 era già stata fondata la Commissione interministeriale per le materie prime insufficienti e per i succedanei e i surrogati, costituita da rappresentanti di alcuni ministeri, delle forze armate e da studiosi indicati dal Centro Nazionale delle Ricerche.65 Compito della Commissione era l’elaborazione di una relazione, da presentarsi a ogni inizio d’anno, sui fabbisogni di materie prime nel caso di un anno di guerra, sulla capacità nazionale di produrle e sui surrogati disponibili. La relazione doveva fornire le reali capacità dell’Italia di “fare da sé”, dando così un sostegno scientifico a scelte politiche di importanza enorme.

Ricettari, antidotari e farmacopee antichi sono, quindi, strumenti importanti per conoscere non solamente la storia delle scienze farmaceutiche e il progredire della produzione medicinale attraverso i secoli, ma anche per analizzare lo stretto rapporto che storicamente intercorse, e tutt’ora intercorre, tra politica e scienza nell’assicurare la disponibilità di farmaci efficaci e la loro accessibilità ai pazienti, così come nell’indicare la direzione in cui la ricerca deve procedere.


1 Cfr. Ernesto Riva, La genesi dei medicamenti. Dalle piante alle molecole (Roma: Aracne, 2015); Luciano Caprino, Il Farmaco 7000 anni di storia (Roma: Armando Editore, 2011).

2 Si veda a tale proposito il recente articolo di Robert Power, Domingo Salazar-García, Mauro Rubini, Andrea Darlas, Katerina Harvati, Michael Walker, Jean-Jacques Hublin, Amanda Henry, “Dental calculus indicates widespread plant use within the stable Neanderthal dietary niche”, Journal of Human Evolution 119 (2018): 27–41.

3 Cfr. Alfonso Corradi, Le prime farmacopee italiane ed in particolare dei ricettari fiorentini (Milano: Ars medica antiqua, 1966); Raffaele Ciasca, Arte dei medici e speziali nella storia e nel commercio fiorentino dal secolo XII al XV (Firenze: Olschki, 1927); Caprino, Il Farmaco 7000 anni di storia.

4 Cfr. Maria Conforti, Andrea Carlino, Antonio Clericuzio, Interpretare e curare. Medicina e salute nel Rinascimento (Roma: Carocci, 2013); Ernesto Riva, I segreti di Esculapio. Genesi del farmaco dall’empirismo degli antichi alle ricerche dell’era moderna (Pisa: Primula, 1998).

5 Saladinus de Asculo, Compendium aromatariorum (Bologna: Henricus de Harlem, 1488).

6 Guido Maria Piccinini, “Il centenario della Farmacopea Estense 1840-1940”, Atti e Memorie dell’Accademia Nazionale di Scienze, Lettere e Arti di Modena, serie V, vol. 5 (1940), 149.

7 Giulio Conci, Pagine di storia della farmacia. (Milano: Edizioni Vittoria, 1934), 215–216.

8 Cfr. Raffaele Bernabeo, “Ulisse Aldrovandi e l’antidotario bolognese”, Medicina nei secoli 5 (1993): 51–62.

9 Serafino Mazzetti, Memorie storiche sopra l’Università e l’Istituto delle scienze di Bologna e sopra gli stabilimenti e i corpi scientifici alla medesima addetti (Bologna: Tipi di S. Tommaso d’Aquino, 1840), 56.

10 Cfr. Antonio Baldacci, Prime ricerche intorno all’opera compiuta da Ulisse Aldrovandi per il protomedicato e l’antidotario (Bologna: Tipografia Gamberini e Parmeggiani, 1913).

11 Ibid., 211–212.

12 Ibid., 210–211.

13 Una ricostruzione delle controversie cui diede luogo quest’opera è stata pubblicata in: Antonio Baldacci, Intorno alla vita e alle opere di Ulisse Aldrovandi (Bologna: Libreria Treves di L. Beltrami, 1907), 15.

14 Baldacci, Prime ricerche intorno all’opera compiuta da Ulisse Aldrovandi per il protomedicato e l’antidotario, 209.

15 Baldacci, Intorno alla vita e alle opere di Ulisse Aldrovandi, 14.

16 Aldrovandi riuscì, seppure in tempi diversi e con difficoltà varie, a ricoprire sia la carica di Protomedico che la presidenza all’orto botanico: “L’Antidotario bolognese, pubblicato nel 1574, fu opera singolarmente delle sollecitudini e dello zelo dell’Aldrovandi. Ma più ancor che per esso è a lui debitrice Bologna per l’orto botanico che per consiglio dell’Aldrovandi si cominciò a formare a pubbliche spese nel 1567, e di cui fu data la cura all’Aldrovandi medesimo insieme coll’ Odone, finché dopo la morte di questo accaduta nel 1571, l’Aldrovandi solo n’ebbe la soprintendenza, e la tenne fino al 1600”, come riportato da Giovanni Fantuzzi in Memorie della vita di Ulisse Aldrovandi (Bologna: Lelio dalla Volpe, 1774), 27.

17 Antidotarii Bononiensis sive de usitata ratione componendorum miscendoruque medicamentorum Epitome (Bononiae: Ioannem Rossium, 1574).

18 Per approfondimenti si vedano: Paula De Vos, “The ‘Prince of Medicine’: Yūḥannā ibn Māsawayh and the Foundations of the Western Pharmaceutical Tradition”, Isis 104 (2013): 667–712; Manfred Ullmann, Islamic Medicine (Edinburgh: Edinburgh University Press, 1997).

19 Baldacci, Prime ricerche intorno all’opera compiuta da Ulisse Aldrovandi, 210.

20 Salvatore Muzzi, Annali della città di Bologna dalla sua origine al 1796, tomo VIII (Bologna: Tipi di S. Tommaso d’Aquino, 1846), 186.

21 Ibid., 187.

22 Si veda a questo proposito: Alfonso Corradi, Le prime farmacopee italiane ed in particolare dei ricettari fiorentini (Milano: Fratelli Rechiedei Editori, 1887), 110.

23 Per approfondimenti su questo tema si veda: Giuseppe Olmi, “Farmacopea antica e medicina moderna. La disputa sulla Teriaca nel Cinquecento Bolognese”, Physis 19 (1977), 197–246.

24 Ibid. 111.

25 Cfr. Raffaele Bernabeo, “Ulisse Aldrovandi e l’antidotario bolognese”, Medicina nei secoli 5 (1993): 51–62.

26 Raffaele Bernabeo, “Ulisse Aldrovandi e l’antidotario bolognese”, 57.

27 Alfonso Corradi, Le prime farmacopee italiane ed in particolare dei ricettari fiorentini (Milano: Fratelli Rechiedei Editori, 1887), 120.

28 Ibid. 122.

29 Ibid. 122-123.

30 Baldacci, Prime ricerche intorno all’opera compiuta da Ulisse Aldrovandi, 209.

31 In risposta alla pubblicazione dell’Antidotario, lo speziale Filippo Pastarino nel 1575 inviò al Senato bolognese una petizione in cui lamentava non solo le difficoltà in cui gli speziali frequentemente si imbattevano in merito al pagamento delle loro prestazioni e al difficile rapporto con i medici, che prestavano poca attenzione alla professionalità degli speziali. La petizione chiedeva inoltre che le ispezioni del Protomedicato fossero estese anche a monasteri e conventi che vendevano medicamenti e rimedi al pari degli speziali. Nel 1594 il Legato Pontificio impose ai monasteri di seguire le stesse regole. Nel 1736 Papa Clemente XII proibì ai monasteri la vendita di rimedi al pubblico. Per un approfondimento si vedano: Enrico Cevolani, Giulia Buscaroli, “Disputa sulla teriaca tra gli speziali e Ulisse Aldrovandi nella Bologna del XVI secolo”,. Rivista Storia della Farmacia 1 (2018): 39–50; Barbara Di Gennaro Splendore, “Craft, money and mercy: an apothecary’s self-portrait in sixteenth-century Bologna”,. Annals of Science 74 (2017): 91–107.

32 Alfonso Corradi, Le prime farmacopee italiane ed in particolare dei ricettari fiorentini (Milano: Fratelli Rechiedei Editori, 1887), 123.

33 Cfr. Bernabeo, “Ulisse Aldrovandi e l’antidotario bolognese”, 51–62.

34 Giovanni Baldi, Notizie storiche su la farmacia bolognese (Bologna: Società Tipografica Mareggiani, 1955), 105.

35 Per approfondimenti in merito alla disputa tra gli speziali bolognesi e Ulisse Aldrovandi si veda: Enrico Cevolani, Giulia Buscaroli, “Disputa sulla teriaca tra gli speziali e Ulisse Aldrovandi nella Bologna del XVI secolo”, Rivista Storia della Farmacia 1 (2018): 39–50.

36 Ibid., 40.

37 Cfr. Enrico Cingolani, Leonardo Colapinto, Dagli antidotari alle moderne farmacopee (Roma: Di Renzo, 2000).

38 Giacomo Attilio Cenedella, “Recensione di Farmacopea per gli Stati Estensi”, Giornale dell’I.R. Istituto Lombardo di Scienze, Lettere e Arti e Biblioteca Italiana, tomo 2 (1841), 1.

39 La grida del 7 novembre 1839, di cui è conservata copia presso la biblioteca dell’Accademia di Scienze, Lettere e Arti di Modena, annunciava ai cittadini: “È già scorso molto tempo dacché il S.A.R. il graziosissimo nostro Sovrano rivolgendo le paterne su cure ad uno degli oggetti che maggiormente interessa la pubblica salute aveva istituita un’apposita commissione destinata a compilare una Farmacopea generale ad uso di questi felicissimi suoi Domini, come pure a comporre una Tariffa indicante il prezzo dei rispettivi Medicinali. […] La Farmacopea per gli Stati Estensi e la relativa Tariffa verranno in esecuzione a datare dal 1 gennaio 1840 e dovranno essere da tale epoca in avanti esattamente osservate, sotto le penali prescritte dalle Leggi in materia di sanità”.

40 Cfr. Patrizia Catellani, “Innovazioni e divulgazione della Farmacopea Estense”, in Atti del Congresso Nazionale di Storia della Farmacia, Castiglioncello-Rosignano, 13-15 ottobre 1989 (Piacenza: Ediprima, 1991), 19.

41 Cfr. Patrizia Catellani, “Dalla farmacopea estense alla farmacopea del Regno d’Italia”, Quaderni della Bassa modenese 23 (1923): 78–92.

42 AA.VV., Farmacopea per gli Stati Estensi (Modena: Eredi Soliani Editori, 1839), XXIII, nota 6.

43 Cfr. AA.VV., Farmacopea per gli Stati Estensi.

44 Guido Maria Piccinini, “Il centenario della Farmacopea Estense 1840-1940”, in Atti e Memorie dell’Accademia Nazionale di Scienze, Lettere e Arti di Modena, serie V, vol. 5 (1940): 154.

45 Il tariffario fu compilato dal Professor Carlo Merosi e dai farmacisti Giuseppe Zoboli e Luigi Bernabei, così da combinare “i reali avanzamenti della terapeutica con la vera azione de’ medicamenti e gli usi ai quali trarneli con profitto”, come riportato in: Catellani, “Innovazioni e divulgazione della Farmacopea Estense”, 19.

46 Enrico Vigarani, “Sulla redazione della Farmacopea per gli Stati Estensi”, Bollettino della Società medico-chirurgica di Modena 63 (1963), suppl. 6: 14.

47 In calce alla prefazione della Farmacopea compare l’indicazione: “In artibus magis utilia quam subtilia quaerenda sunt” (Nelle arti sono da valutarsi maggiormente le cose utili delle sottigliezze). Con questa espressione gli Autori ribadivano la natura pratica e concreta del testo da loro curato e suggerivano però che tra le cose importanti da perseguire vi fossero non solo la sicurezza e ‘‘efficacia dei farmaci, ma anche il loro prezzo. I cittadini estensi trovarono nella Farmacopea uno strumento in difesa anche dei loro interessi economici, dall’altro anche i farmacisti si videro riconosciuto il diritto ad avere un giusto guadagno, come riportato in: Catellani, “Innovazioni e divulgazione della Farmacopea Estense”, 22.

48 Vigarani, “Sulla redazione della Farmacopea per gli Stati Estensi”, 4–5.

49 Piccinini, “Il centenario della Farmacopea Estense 1840-1940”, 164.

50 Catellani, “Innovazioni e divulgazione della Farmacopea Estense”, 24.

51 Cfr. Catellani, “Dalla farmacopea estense”, 78–92.

52 Cfr. Vincenzo Atella, Silvia Francisci, Giovanni Vecchi, “La salute degli italiani, 1861-2011”, Politiche Sanitarie 12 (2011): 165–189.

53 Mariapina Di Simone, “Politiche sanitarie in Italia da Crispi a Giolitti”, Popolazione e Storia 1 (2002): 144.

54 Cfr. Atella, Francisci, Vecchi, “La salute degli italiani, 1861-2011”, 165–189.

55 Benedetto Croce, Storia d’Italia dal 1871 al 1915 (Bari: Laterza, 1928), 172.

56 Cfr. Giorgio Cosmacini, Storia della medicina e della sanità in Italia. Dalla peste nera ai giorni nostri (Roma-Bari: Laterza, 2016).

57 Cfr. Franco Della Peruta, “Sanità pubblica e legislazione sanitaria dall’Unità a Crispi”, Studi storici 21 (1980): 758–759.

58 Senato, Discussioni, Legislatura 16a, sessione 2a, tornata del 26 aprile 1888, p. 1343.

59 Cfr. Catellani, “Dalla farmacopea estense”, 78–92.

60 Cfr. Alberto Soldi, Origini ed evoluzione della legislazione farmaceutica in Italia (Milano: Guadagni, 1976).

61 Cfr. Catellani, “Dalla farmacopea estense”, 78–92.

62 Cfr. Giacomo Leopardi, Farmaci e salute in Italia dal 1892 ai giorni nostri: le nove edizioni della Farmacopea ufficiale come strumento di scienza e assistenza (Federazione degli Ordini dei Farmacisti Italiani, 1991); Cfr. Giancarlo Signore, Storia della farmacia. Dalle origini al XXI secolo (Milano: Edra, 2013).

63 Cfr. Roberto Maiocchi, Scienza e fascismo (Roma: Carocci, 2004).

64 Antonio Vaccari, “Le piante medicinali spontanee del Modenese”, Atti e Memorie dell’Accademia Nazionale di Scienze, Lettere e Arti di Modena, serie V, vol. 5 (1940), 3.

65 La Commissione interministeriale fu istituita con decreto il 18 aprile 1935 e la nomina dei membri avvenne nel maggio 1935. Oltre ai tre designati dal CNR (Marconi, Giannini e Frascherelli), ne facevano parte i rappresentanti delle tre armi (Edoardo Guidotti, Ezio Rosi e Giulio Costanzi), uno del Ministero delle Corporazioni (ingegner Leone Testa), uno del Comitato di mobilitazione civile (colonnello Aurelio Cossu), del Ministero Agricoltura e Foreste (Augusto Agostini) e uno della Commissione suprema di difesa (Umberto Spigo). Fin dalle prime riunioni furono invitati a partecipare alcuni responsabili dei “comitati tecnici” del CNR (chimica, ingegneria, geologia, biologia, materie prime, geodesia e geofisica, agricoltura). Per approfondimenti si veda: Maiocchi, Scienza e fascismo.